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Paul Mescal in History of Sound
Nel cinema di Oliver Hermanus nulla è mai dichiarato con enfasi, eppure tutto vibra a bassa frequenza, in uno spettro emotivo dove l’assenza pesa quanto la presenza. The History of Sound, presentato a Cannes 2025, si inserisce perfettamente in questo registro autoriale, già tracciato nei precedenti Moffie (2019) e Living (2022): film diversissimi per ambientazione, ma accomunati da un medesimo lavoro di cesello sul sentimento trattenuto, sul trauma che si sedimenta, sul tempo che scorre come una nota di pianoforte che si affievolisce ma continua a risuonare.
A partire da un racconto di Ben Shattuck, Hermanus costruisce una storia volutamente anacronistica, non solo perché si estende lungo sei decenni – dagli anni ’10 agli anni ’80 – ma perché si fonda su una classicità narrativa ostinata, quasi orgogliosa, che rinuncia alla spettacolarità del melodramma queer contemporaneo per rifugiarsi nella sobrietà del non detto. È un film che sembra provenire da un’altra epoca del cinema, e che trova il suo paragone più diretto in Brokeback Mountain (2005): non tanto per le similitudini narrative (due uomini, un amore impossibile, il tempo che corrode), quanto per il desiderio condiviso di sottrarre la storia d’amore alla retorica identitaria e politicizzata, affidandola invece a una grammatica dell’intimità, alla reticenza degli sguardi, al suono delle cose taciute.
La forma scelta da Hermanus è austera e ricamata, affidata alla fotografia polverosa e sognante di Alexander Dynan e alla partitura originale di Oliver Coates, capace di evocare la malinconia dell’America profonda senza mai forzarla in un registro folcloristico. Ed è proprio questo uno degli snodi critici più significativi del film: se da un lato The History of Sound sembra voler raccontare la genesi della musica folk americana attraverso la figura di Lionel (Paul Mescal), giovane etnomusicologo itinerante che raccoglie suoni e canti su cilindri di cera, dall’altro questa trama si rivela ben presto un pretesto. Non è l’archivio sonoro della nazione a interessare Hermanus, ma quello, infinitamente più fratturato e opaco, della memoria privata. Non la Storia della musica, ma il suono di una storia d’amore.
Il viaggio dei protagonisti – Lionel e David (Josh O’Connor), due studenti del Conservatorio di Boston che si conoscono nel 1917 – attraverso il backwood del Maine, sembra alludere a una tradizione americana del racconto di formazione e di scoperta del paesaggio. Ma qui l’erranza non è epica: è dislocazione, disagio esistenziale, incapacità di sentirsi mai nel posto e nel tempo giusto. Il senso di sfasatura temporale – Lionel nel 1910 è già un bambino fuori dal mondo; nel 1980, da vecchio, è ancora un corpo estraneo – attraversa il film come un’eco continua. Il tempo è sempre quello dell’avrebbe potuto essere, non delle sliding doors ma delle decisioni già prese, delle assenze che pesano, delle parole mai dette.
Lo spostamento geografico – dall’America rurale all’Italia solare, dai boschi del Nord-Est alle cattedre dei conservatori europei – non produce illuminazioni, ma si limita a scandire il ritmo di un’inquietudine irrimediabile. Siamo lontanissimi dalla mitologia del viaggio redentivo: qui il percorso ha il sapore del rimpianto, non dell’arrivo. Ogni stazione è un’occasione perduta, ogni ritorno è una resa.
The History of Sound è un film che non convince fino in fondo. Da un lato, l’eleganza della confezione – la regia millimetrica, la direzione degli attori, la scelta dei toni – lo rende un’opera indubbiamente raffinata. Paul Mescal, in particolare, è straordinario nel suo trattenere emozioni sotto la superficie, nel dare corpo a un dolore che non ha mai nome ma si insinua in ogni gesto. O’Connor, al contrario, sembra meno centrato, forse perché il film, coerentemente con la sua struttura memoriale, lo guarda solo attraverso il filtro della memoria di Lionel: David è un’assenza che pesa più di quanto sia stato mai una presenza.
Eppure, al termine di oltre due ore di cinema, ci si chiede cosa resta davvero. L’anacronismo programmatico del film – la sua distanza dai codici narrativi e visivi del presente – appare tanto affascinante quanto sterile. Hermanus sembra quasi sfidare lo spettatore a lasciarsi emozionare senza appigli narrativi, senza climax, senza confessioni. È un gesto radicale, ma rischia di apparire un malinteso gesto d’orgoglio: l’antiretorica qui diventa stilema, la sobrietà diventa maniera.
E tuttavia The History of Sound non è un fallimento. È un film che, proprio nella sua riluttanza a compiacere, nella sua lentezza iterativa, nel suo rifiuto di spiegare, lascia un’impronta ambigua e persistente. Un film che non vuole essere “attuale” ma “memorabile”, che preferisce la risonanza al racconto. E forse è proprio questo il senso ultimo del titolo: la storia del suono non è quella dei canti raccolti da Lionel, ma quella di un amore registrato su un supporto fragile e ormai inascoltabile. Come un cilindro di cera dimenticato in un archivio, pronto a spezzarsi alla prima pressione, ma in grado di far riaffiorare, per un istante, la vibrazione di ciò che è stato. E non è più.