L’amico silenzioso è un imponente ginkgo biloba, albero millenario che si erge nel giardino botanico in una città universitaria medievale in Germania. È il testimone ideale del cinema di Ildikó Enyedi, la grande regista ungherese da sempre sul confine tra realtà e immaginazione, simbolico e materico, uomo e natura. Ed è il vero protagonista di Silent Friend, in Concorso a Venezia 82, un affascinante e bizzarro viaggio nel tempo, un’esperienza sensoriale che celebra l’avventura della conoscenza e il progresso scientifico, l’apparato romanzesco e lo spettro delle neuroscienze, la necessità di sentirsi parte di qualcosa e la solitudine di chi sa aspettare un segnale.

Enyedi, autrice parca e spiazzante, ha l’intelligenza (emotiva) di entrare nell’universo dei protagonisti, usando gli elettrodi sì per registrarne l’attività neuronale e la risposta agli stimoli, ma anche per riflettere sull’umanità, perfino sulla vita, di un oggetto che non può essere solo strumento diagnostico.

Silent Friend
Silent Friend

Silent Friend

(Lenke Szilagyi)

È un po’ l’approccio che adotta per tutto l’arco di questo lungo e complesso film, che interseca tre epoche storiche (e tre formati): nel 2020, un neuroscienziato di Hong Kong che esplora la mente dei neonati e, nel silenzio di un ateneo tedesco deserto per la pandemia da Covid, inizia un esperimento inaspettato con il vecchio albero; nel 1972, un timido studente di lettere, incaricato di curare le piante di un’amica da cui è attratto, subisce un profondo cambiamento connettendosi con un geranio; nel 1908, la prima donna ammessa all’università scopre, attraverso la fotografia, i sacri schemi dell’universo nascosti nella più umile delle piante.

Sono tre personaggi impacciati, magari difettosi, forse disadattati, che si muovono ai margini di qualcosa – linguistici, culturali, esperienziali, per genere – senza dare fastidio e tacendo molto, che trovano un inaspettato, misterioso, travolgente collegamento con la natura attraverso tre chiavi d’accesso a ciò che pare essere inaccessibile.

Si accuserà Silent Friend di confusione narrativa, eccentricità calcolata, dilatazione temporale. Ma è nel corteggiamento dell’imprevedibile, nel rifiuto degli schematismi, nella stranezza di uno spaesamento che si manifesta l’incanto di un’opera aperta, che si confronta con i limiti del nostro sistema percettivo e interroga lo stato delle relazioni umane.

Enzo Brumm in Silent Friend
Enzo Brumm in Silent Friend

Enzo Brumm in Silent Friend

(Pandora Film)

E lo fa esaltando la natura stessa del cinema: la possibilità di restituire la realtà intercettandone i meriti e i bisogni (pellicola e digitale, colore e bianco e nero: la fotografia di Gergely Pálos), di incastrare i piani in un flusso temporale che non insegue la cronologia degli eventi o la rapidità imposta dalla società dell’effimero (montaggio di Károly Szalai), di cercare una via in cui il realismo si specchia nell’insolito e il divergente trasforma la convenzione (come The Magic Hunter che fondeva passato e presente o Corpo e anima con i sogni che trasformavano la vita).

E gli interpreti non possono che incarnare al meglio questo appuntamento con il mistero, dalla vivace Luna Wedler all’irresistibile Enzo Brumm fino a un maestoso Tony Leung, un gigante che conosce l’arte della sottrazione dietro una malinconia che qui si scopre perfino buffa. È una meditazione sulla curiosità che si modula come intraprendenza personale o ricerca scientifica, una vertiginosa ode alla pazienza e all’attesa, un manifesto all’amicizia che trascende i corpi.