I titoli dei film di Mike Leigh sono sempre quel che sono e, al contempo, indicano qualcosa che resta nascosto in piena vista. Dai primi Bleak Moments, ovvero i momenti cupi tra personaggi che non sanno comunicare tra loro, e Belle speranze da leggere in antitesi sul fronte delle illusioni perdute, passando per il rigurgito di speranza di Dolce è la vita, la messa a nudo di Naked, Segreti e bugie che parla letteralmente di fatti celati e occultati e così via fino alle quattro stagioni attraversate dal gruppetto di Another Year.

Scomode verità (Hard Truths), che arriva dopo i due affreschi storici Turner e Peterloo, non fa eccezione: il punto è tutto nel titolo, nel provare a confrontarsi con le cose che non accettiamo perché dolorose o sgradevoli. Non è un caso che il film inizi sì con una scena enigmatica (e ciclica) ma subito interrotta da un urlo che squarcia un sonno diurno, in una stanza che la protagonista vorrebbe tenere tutta per sé invano, non fosse che i raggi di sole si infiltrano tra le veneziane e che il marito, russando, impedisce la quiete notturna.

È il primo dei tanti urli di Pansy, una casalinga infelice – e, si sa, ognuno è infelice a modo suo – e costantemente sul piede di guerre, divorata dall’ansia e dalla paura, spaventata da un mondo che ha imparato a recepire come incontrollabile: i germi da abbattere con pulizie ossessive, la gente con cui litigare a prescindere per un parcheggio o per una visita medica, gli animali che siano insetti o volpi poco cambia, i fiori da maneggiare senza toccarne i pericolosi gambi.

Scomode verità
Scomode verità

Scomode verità

Pansy non dà pace agli altri e non si dà pace, si sente odiata, insidiata, perseguitata da tutti: che non riesca più a dormire è il minimo ed è naturale che cerchi rifugio nel divano (un luogo da disinfettare, sostituire, ridurre nelle dimensioni). Come se il corpo affaticato dalle carenze (fisiologiche, affettive, sociali: il marito e il figlio sembrano annichiliti dalla donna, incapaci di reagire) si rifiutasse di giacere in un posto, il letto matrimoniale, che ormai è sinonimo di lutto: quello mai metabolizzato della madre; e quello in fieri della fine di qualcosa che forse non è mai iniziato.

A far da contraltare, sua sorella Chantelle, una parrucchiera solare che non alza mai la voce, è predisposta all’ascolto, si fa ben volere da tutti, raccoglie le confidenze delle clienti e ha un bel rapporto con le figlie cresciute da sola (gli uomini, l’abbiamo capito, sono superflui, perfino ingombranti, sicuramente repressi fino allo sconforto). A legarle è un passato che riaffiora per frammenti sparsi e ricordi condivisi, ma le scomode verità trascendono il tempo: stanno lì, nascoste in piena vista, negli spazi apparentemente ostili alla presenza di Pansy o viceversa, di fronte alla lapide di una persona cara, in una casa senza calore né arredi, in un piccolo soggiorno pieno di pietanze che non mangerà nessuno.

L’hard truth è evidente e noi non possiamo farci niente: Pansy è depressa e nessuno ha il coraggio di dirglielo – o ridirglielo – e, alla fine, il collasso emotivo è tale che l’urlo non è mai liberatorio ma punitivo, il conflitto distrugge anziché costruire, il trauma ultimo scorso è solo il sintomo. E non basta più un abbraccio, un’attenzione, una domanda per una catarsi ormai forse impossibile.

Scomode verità
Scomode verità

Scomode verità

È stupefacente come Leigh costruisca questa anatomia di una caduta senza cedere al pietismo del giorno dopo, alla retorica più scolastica, al flusso didascalico di fatti messi uno dopo l’altro per innescare una reazione. Con un fondamentale lavoro con – e su – la luce di Dick Pope (storico sodale dell’autore, morto nell’ottobre 2024), che cerca il nitore e scopre la fredda inquietudine di un turbamento privato che si riflette in un sentimento collettivo, quello del tempo sospeso della pandemia (che ha ritardato l’inizio delle riprese e si ritrova nelle sparute mascherine e nell’isolamento dell’adolescente interrotto).

Maestro del realismo e umanista fuori moda, Leigh non prescinde mai dalla commedia che postula il dramma, dall’umorismo senza il quale la vita sarebbe un’occasione perduta, dal cuore che batte anche oltre una coperta che fa da barriera, il giubbotto come corazza, nella lacrima che sgorga immaginando una rinascita. E pochi come lui amano le attrici e gli attori (Michele Austin, David Webber, Tuwaine Barret), regalando a Marianne Jean-Baptiste – da lui rivelata in Segreti e bugie – l’occasione di un’indimenticabile masterclass: uno dei personaggi più respingenti, scontrosi, antipatici degli ultimi anni al servizio della più spettacolare, straziante, travolgente, crisi di nervi dai tempi del duo Cassavetes/Rowlands. Se non è un capolavoro poco ci manca (che nessun festival europeo l’abbia selezionato è sconcertante).