Nel cinema contemporaneo si assiste sempre più frequentemente al tentativo di ricucire lo strappo tra identità e memoria, tra presente e passato, tra ciò che si è e ciò che si è stati – o che si sarebbe potuti essere. Romería, il nuovo film di Carla Simón in concorso a Cannes, si inscrive con coerenza e dolcezza in questa costellazione: non come semplice narrazione memoriale, ma come dispositivo sensibile di riattraversamento del tempo e dei legami. Se con Alcarràs Simón aveva raccontato la disgregazione di una comunità contadina in lotta contro la cancellazione del proprio radicamento, Romería sposta lo sguardo verso una deriva più intima, quasi liturgica: una processione interiore alla ricerca di un’origine mai veramente narrata, mai del tutto accessibile.

Marina – alter ego trasparente della regista – è una diciassettenne alla ricerca non solo di un documento che certifichi la sua discendenza per ottenere una borsa di studio, ma soprattutto di un’appartenenza immaginata, evocata, desiderata. Il suo viaggio verso Vigo, tra le pieghe di una famiglia paterna dimentica, diffidente o semplicemente sfinita, è un pellegrinaggio laico, ma non per questo meno sacro, nei territori della genealogia sentimentale.

La struttura del film riflette questa tensione tra indagine e sospensione. Romería è costruito come un tempo dell’attesa: l’attesa di una rivelazione che tarda ad arrivare, o che arriva in forme distorte, ambigue, addirittura reticenti. Simón abbandona la compattezza improvvisata di Alcarràs per un tessuto narrativo più frastagliato, fatto di accenni, ritorni, slittamenti percettivi. Lo spettatore, come Marina, si muove tra soglie – di stanze, di silenzi, di sguardi non restituiti – senza mai avere la certezza di varcarle del tutto.

Romeria di Carla Simón
Romeria di Carla Simón

Romeria di Carla Simón

La cinepresa è qui, più che mai, uno strumento medianico: attraverso lenti, colori slavati, luci naturali, recupera l’immaginario delle vecchie pellicole, dei video familiari dimenticati, delle fotografie logore di un passato che resiste solo in forma di traccia. I flashback, innestati come sogni a occhi aperti, mettono in scena i genitori come icone di una movida libertaria e già contaminata dal tragico: corpi nudi sulla spiaggia, abiti anni Ottanta, felicità tossica. Queste immagini – che Marina non ha mai vissuto ma ha solo immaginato leggendo il diario della madre – diventano il suo unico archivio identitario. Un cinema come specchio rotto in cui si cerca di riconoscere un volto.

Eppure, Romería non è solo un film sull’assenza, ma anche sull’incontro. Lente, progressive, le figure della famiglia paterna si materializzano nella vita di Marina: lo zio amicone, i cugini rumorosi, i nonni chiusi in una forma di ostinata, anche repellente, negazione. Nessuno è colpevole, nessuno innocente. Tutti, in fondo, hanno dimenticato come si racconta una storia condivisa. Simón si guarda bene dal giudizio: preferisce la sospensione, l’allusività, la delicatezza. E proprio in questa scelta formale risiede una delle forze del film – ma anche una delle sue fragilità.

Romeria di Carla Simón
Romeria di Carla Simón

Romeria di Carla Simón

Perché Romería, in fondo, è un film sbilanciato. Alcune sequenze – su tutte quella del pre-finale, dove la memoria sembra infine concretizzarsi in immagine – possiedono una grazia struggente; altre appaiono forzate, troppo prolungate nel loro simbolismo (il gatto, ad esempio, non aggiunge né profondità né mistero). Anche la musica – un tappeto di violini insistenti – rischia talvolta di sovraccaricare l’emozione, quasi a voler compensare l’assenza di una vera progressione narrativa.

La sensazione, nel complesso, è che Simón perda a tratti il controllo, come se il desiderio dell’erranza trascinasse anche lei ai margini del film. Romería vuole essere un diario, ma finisce per assomigliare a una sequenza di appunti non sempre decifrabili. Il finale – incongruo, sfilacciato, emotivamente irrisolto – ne è il sintomo più evidente. L’impressione è che Simón cerchi di chiudere un cerchio che invece resta inevitabilmente aperto, come la memoria stessa.

Eppure, nella sua erranza, Romería possiede un valore raro: quello di un cinema che si interroga sul senso stesso della rappresentazione, sul bisogno umano di vedere per ricordare, e di ricordare per esistere. In questo senso, il film si collega idealmente a una linea che unisce il cinema come archivio e il cinema come rito. Si pensi alla camera oscura di Derrida: uno spazio in cui la memoria non è ciò che si conserva, ma ciò che ritorna, trasfigurato, perturbante.

Così Romería si offre allo spettatore come uno specchio d’acqua: riflette, distorce, fa riaffiorare. Non tutto torna, non tutto si comprende. Ma ciò che resta – il silenzio, un viso, una spiaggia, il mare – è forse ciò che conta di più.