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Reedland di Sven Bresser
Ha i colori incendiati della pittura fiamminga e un'anima in bianco e nero, Reedland di Sven Bresser, opera prima olandese in gara alla Semaine de la Critique di Cannes. Un film che si inscrive nella grande tradizione nordica dell’austero espressionismo spirituale, dove il paesaggio è una metafora vivente e gli uomini sembrano scolpiti nel silenzio del mondo primordiale.
Quando Johan, tagliatore di canne, scopre il corpo senza vita di una ragazza sulla sua terra, il suo volto ieratico si incrina sotto il peso di una colpa ambigua, mai enunciata. Da lì, l’indagine che intraprende – tra i canneti spazzati dal vento, le assemblee rurali, la cura tenera della nipotina – assume i contorni di una discesa nel male quotidiano, in quell’invisibile sedimentazione di errori e silenzi che plasma il peccato come una forza naturale, inevitabile.
La regia di Bresser, già promessa avvistata con il corto L'été et tout le reste, si conferma di raro talento visivo e atmosferico. Le sequenze paesaggistiche – quei giunchi che si agitano sotto il vento diurno e notturno – hanno la forza poetica, inquietante e quasi astratta dei cieli fiamminghi di un Bruegel o di un Bosch. Ma non meno impressionante è il paesaggio umano che le abita, scolpito da una verità documentaria: volti scavati, corpi consunti dal lavoro, parole pesate come pietre.
È un cinema che non racconta nulla di nuovo – perché il mondo, suggerisce Bresser, è sempre lo stesso da quando è stato creato. Solo, abbiamo disimparato a sentirne la voce strozzata. Ma anche nel silenzio, anzi soprattutto nel silenzio, accadono le cose decisive. E proprio la voce del vento che attraversa tutto il film – insieme al nome del protagonista, Johan – sembra richiamare un capolavoro assoluto come Ordet di Carl Theodor Dreyer: la parola che salva o condanna, il soffio che porta vita o disperazione.


Reedland di Sven Bresser
Il lavoro sul sonoro è magistrale: un mosaico di respiri naturali, scricchiolii, mormorii che diventano i veri narratori della storia.
La parabola di Johan – incarnato da un attore che davvero maneggia canne e brucia stoppie come chi ci è nato – si snoda con un rigore quasi dreyeriano, in una rarefazione narrativa che avanza, scena dopo scena, verso un abisso senza grida. Il senso del peccato, la colpa ancestrale, la natura corrotta dell’uomo: tutto il retaggio puritano della religiosità nord-europea impregna Reedland, senza mai trasformarsi in predica, ma come nebbia sottile che contamina ogni gesto.
Bresser introduce anche improvvise, folgoranti virate surreali, lynchiane nel loro insinuarsi nell'ordinario: la recita scolastica con i bambini travestiti da ippopotami; l’allucinata sequenza della lavatrice, che incide una crepa straniante nella compattezza narrativa.
Se lo sguardo si dimostra già maturo e potentemente personale, sulla struttura affiora ancora una certa monocromia emotiva, una linea narrativa troppo trattenuta che rischia talvolta di attenuare l’urgenza del racconto. Ma è un limite fisiologico di un'opera prima tanto fedele al suo universo interiore quanto già capace di evocare, nei suoi riverberi più profondi, il mistero, la colpa e la grazia negata che permeano la grande arte del Nord.
Reedland è un film da vedere sul grande schermo, lasciandosi attraversare dal suo lento, inesorabile soffio. Come quei giunchi piegati dal vento, anche noi spettatori restiamo curvi sotto il peso invisibile delle nostre colpe, avvolti da una nebbia che non si dissolve, nell’attesa muta di una grazia che forse non arriverà mai.