Che cosa significa davvero abitare uno sguardo? Nel film Presence (2024), Steven Soderbergh assume questa domanda come principio fondante di un esperimento radicale, un cinema in cui lo spettatore diventa, letteralmente, lo sguardo di un fantasma. Non uno spirito tormentato, minaccioso o rancoroso, ma una presenza sottile, quasi benevola, vicina a quel «fantasma della pura immanenza» evocato da Gilles Deleuze nel suo celebre saggio dedicato a Spinoza. Per Deleuze, infatti, il concetto di immanenza indica una dimensione di assoluta coincidenza fra soggetto e oggetto, fra osservatore e osservato, una zona liminare dove «l’anima diventa indistinguibile dalla materia che essa percepisce». È proprio questa indistinguibilità, questo liquido fondersi della coscienza nel mondo percepito, il terreno fertile in cui Soderbergh prova a far germinare il suo insolito horror domestico—benché, con ogni probabilità, si tratti di una dimensione teorica che il regista stesso non conosce o, più semplicemente, non si preoccupa di conoscere.

Lo spettatore, grazie a una radicale soggettiva “ultra-grandangolare” (Soderbergh utilizza un 14 mm che curva e dilata lo spazio fino a trasformarlo in una dimensione virtuale a 360 gradi), si ritrova proiettato nel ruolo di un’entità spettatrice onnipresente, capace di abbracciare ogni angolo della casa in cui si svolge il dramma familiare. Un dispositivo visivo potente e ingombrante che richiama, forse involontariamente, il panopticon foucaultiano: ogni gesto, ogni parola pronunciata dai personaggi è inevitabilmente captata, assorbita e rielaborata dallo spettatore-fantasma, che diventa così complice, ma anche inevitabile voyeur, di quanto accade. In questa prospettiva, Soderbergh sembra suggerire che il cinema stesso sia una casa infestata: infestata non da spiriti maligni, bensì da uno sguardo immanente, da una presenza che testimonia senza interferire, custode malinconico delle vite altrui.

Ma se inizialmente questa presenza appare puramente contemplativa, proprio quando ci siamo abituati a tale benevola inerzia dello spettatore-spettro, Soderbergh spariglia le carte. Nell’ultimo atto, il fantasma sorprendentemente interviene, spezza la barriera trasparente dello sguardo e modifica il corso degli eventi. Questo colpo di scena—che è anche una rottura teorica—non nega la dimensione spirituale dell’immanenza ma la completa, come se improvvisamente la «coincidenza fra osservatore e osservato» diventasse concreta e operativa. È qui che il film vira definitivamente dalla speculazione filosofica (probabilmente inconscia) alla narrazione emozionale, facendo emergere con forza l’idea che anche una presenza apparentemente disincarnata può scegliere, può agire, può partecipare.

Ed è proprio in questo snodo drammatico che si rivela il legame più forte con la contemporaneità. Nel mondo digitale in cui siamo immersi, infatti, lo sguardo è sempre più frequentemente assoluto, totale, ubiquo. Una trasparenza radicale che si nutre di una continua esposizione senza responsabilità: guardiamo, catturiamo, condividiamo, ma raramente rispondiamo davvero delle conseguenze di ciò che vediamo. Soderbergh, attraverso il suo film, tocca questo nervo scoperto. La scelta di far agire il fantasma rappresenta un chiaro invito a riflettere sulla necessità di assumere responsabilità in un tempo dominato dalla trasparenza irresponsabile, in cui lo sguardo rischia sempre di essere un atto privo di implicazioni etiche.

Eppure, paradossalmente, la provocazione teorica del film—gesto coraggioso e assolutamente contemporaneo—non trova un corrispettivo altrettanto potente sul piano emotivo e drammatico. Il dispositivo di Soderbergh, così radicale e totalizzante, finisce infatti per congelare, più che scaldare, le emozioni dei personaggi. L’intervento del fantasma, lungi dall’essere liberatorio, cristallizza ulteriormente le emozioni, ne accentua la condizione di marionette imprigionate nella ragnatela visiva e concettuale costruita dal regista: più osservati che vissuti, più oggetti di uno sguardo teorico che soggetti reali.

Quella di Soderbergh è dunque una reinterpretazione radicale dell’horror tradizionale. Il film smette di essere un luogo della paura ancestrale e diventa il luogo di un’immanenza meditativa, quasi spirituale, un esperimento in cui ciò che spaventa non è più il fantasma, ma la possibilità stessa di un osservatore che coincide totalmente con ciò che osserva. È la paura del “troppo vicino”, della perdita del confine che garantisce all’individuo il proprio spazio vitale, la propria dignità di soggetto autonomo. È la paura, infine, di scoprire che persino ciò che riteniamo puro sguardo, pura contemplazione, può diventare atto, può diventare vita, può diventare scelta.

In definitiva, Soderbergh—probabilmente inconsapevolmente, forse per puro istinto artistico—ci lascia un film che dialoga sotterraneamente con alcune delle più complesse idee filosofiche del Novecento e con le più urgenti questioni della nostra contemporaneità digitale. Tuttavia, la forza di questa provocazione teorica non trova un riscontro altrettanto convincente sul piano drammatico. Nel momento in cui ci chiama alla responsabilità dello sguardo, il film resta intrappolato nella stessa gabbia di trasparenza da cui voleva liberarci. Come a dirci che, forse, il vero fantasma contemporaneo è proprio quello dell’immagine stessa, quando rischia di diventare puro specchio e ci restituisce soltanto la freddezza del nostro essere spettatori onnipotenti, condannati a vedere tutto, ma incapaci, talvolta, di provare autentica empatia.