È per eccellenza colui che aveva previsto tutto, George Orwell, ed è evidente quanto la sua lezione risuoni nella società contemporanea e, di riflesso, in tutto ciò che ha prodotto l’audiovisivo traducendo e aggiornando la sua opera. L’attualità (l’eternità?) di Orwell nella visione distopica dell’umanità, nell’interpretazione dei meccanismi totalitari, nel racconto del controllo delle masse risuona in Orwell: 2+2=5, già presentato all’ultimo Festival di Cannes e film d’apertura della 21a edizione del Biografilm.

Sin dal titolo, il riferimento è al moloch 1984, con l’assurdo calcolo a configurare la teoria del “bispensiero”, quel dispositivo mentale legato alla propaganda politica che consente di accettare contemporaneamente verità opposto. Ma, come nelle precedenti esperienze no-fiction (ricordiamo almeno I Am Not Your Negro, sulla questione razziale attraverso la vita di James Baldwin), quello di Raoul Peck non è semplicemente un documentario in gloria dello scrittore e del suo capolavoro.

Si tratta, piuttosto, di un saggio audiovisivo che unisce materiali di diversa natura, dalle foto d’archivio che testimoniano la giovinezza di Orwell (ritratti di famiglia, istantanee dalla Birmania ai tempi colonia britannica) ai frammenti degli adattamenti cinematografici del romanzo (Nel 2000 non sorge il sole di Michael Anderson, Orwell 1984 di Michael Radford) passando per un dimenticato tv movie biografico (Crystal Spirit: Orwell on Jura) e immagini evocative provenienti da film di varia estrazione (da Brazil a Minority Report) fino a estratti da telegiornali, reportage di guerra, pezzi da congressi politici e interviste a figure come Milan Kundera (che sottolinea la dimensione “didattica” di un autore che non amava) o Edward Snowden (da Citizenfour, pluripremiato documentario di Laura Poitras). Il tutto attraversato dalle parole di Orwell (ovvero la voce di Damian Lewis, nella versione originale), non solo quelle eternate da 1984 e attorno alle quali si sviluppa tematicamente tutto il film (“La pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”) ma anche le ultime, che arrivano dopo che “tutto è stato già scritto”.

Film di forte coscienza militante, prodotto tra gli altri da Alex Gibney (che sia anche l’incontro tra due “scuole” della no-fiction?), Orwell: 2+2=5 rafforza la vocazione militante del cinema di Peck, consapevole della natura “necessaria” – e dei relativi rischi – di un cinema perfino solenne nella sua retorica che non ha paura di puntare il dito e di fare nomi e cognomi.

Più che una rilettura del passato nel presente, è un pamphlet per immagini e parole che tiene insieme tutte le scintille di un secolo di contraccolpi orwelliani, che si concentra soprattutto sugli ultimi decenni a dimostrare quanto 1984 sia passato invano e che, anzi, sia quasi il “libro di testo” di una generazione di governanti autocrati che padroneggiano con sconvolgente agilità la “neolingua” (dal Bush che giustifica gli interventi bellici a Trump ma anche Orban, Zemmour e Meloni con un brutale discorso “identitario”).

Il rischio è che la potenza visionaria del regista si risolva in un approccio un po’ didascalico e a tratti bulimico, tant’è che lo slancio più sorprendente e commovente arriva quando Peck ci ricorda la sua caratura internazionale da vero intellettuale e poeta: il parallelismo tra il respiro affannato del morente Orwell e quello ormai iconico di George Floyd che “non può respirare”.