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Nouvelle Vague
Che comunione di amorosi sensi, quella tra Francia e America. A Cannes 78., almeno dove gli States sono di casa, a patto che non le mandino a dire al 45° e 47° presidente, Donald J. Trump: ci ha pensato la Palma d’Onore De Niro, ci ha riflettuto, con apprezzabile preveggenza, Eddington di Ari Aster.
Al di là della contingenza, e congerie, geopolitica, tra galletti e yankee va a gonfie vele, e proprio in termini di geometrie festivaliere: che sarebbe Cannes, senza Hollywood, senza indie e compagnia stelle & strisce? Altra cosa, se non nulla, ed ecco a sigillare il sodalizio Nouvelle Vague, aka New Wave, la celebrazione della “Nuova Onda” transalpina che sessant’anni fa cambiò il cinema per come lo conosciamo: produzione francese, regia di un americano, quell’autore ondivago e prolifico, dirimente ma sopravvalutato che è Richard Linklater, Prima dell’alba e derivati, Boyhood e tanto ancora in carnet.
In lizza per la Palma, va dritto per dritto ma con apprezzabile sprezzatura a omaggiare, e insieme bearsi, della grandeur irriverente e seminale, sprezzante e dirimente di Truffaut, Chabrol e Godard (Guillaume Marbeck, che tipino fino), di cui ripercorriamo genesi e scazzi, pause e riprese, raziocinio e – ehm – presa differita dell’esordio capitale Fino all’ultimo respiro (1960). Aubry Dullin per Jean-Paul Belmondo e Zoey Deutsch per Jean Seberg, entrambi bravi, si tratta di un eterodosso, scanzonato e parimenti sornione reenactment, che stuzzicherà i cinefili meno paludati, insolentirà le beghine della Settima Arte e, rischia, risulterà indifferente o, più grave, totalmente ex novo alla generazione con la lettera terzultima, penultima e ultima scorsa.
Pazienza, lo spartito è colto e ironico, ritrovare JLG e gli altri, Truffaut su tutti, è gioia e, back in the days, rivoluzione, vellicate dal bianco e nero, dalla posticcia possibilità e commestibilità del miracolo per immagini e suoni, dalla intrapresa d’un autore incipiente.
Regolata dai Cahiers, irregimentata dal genio e istruita dall’iconoclastia, l’epifania dell’Ultimo respiro ritrova il processo creativo e il laborio collettivo, il set e l’esistenza, la ragione e il (ri)sentimento – Godard rosicava per non aver ancora esordito, e I 400 colpi li aveva sofferti… - che sono poi tutti elementi ben cari a Linklater, che dell’arte-vita ha sempre fatto il proprio aleph.
Si sbaglierebbe a (de)rubricare New Wave a mero divertissement o, peggio, moto ondoso necrofilo, perché Linklater sussume di quella irripetibile e segnante esperienza poetica e stile, e dunque spirito: lungi dal calco postmoderno, l’omaggio è al contempo cazzeggio e carotaggio, messa in scena e revenant osceno, insomma, dissimulata complessità.
Operazione partecipata e divertita, ma non innocua, e ben venga, anche se a farne le spese siamo noi italiani, per interposto “vilipendio” di maestro. Annoverato quale maestro da JLG e sodali, che pendono dalle sue eidetiche labbra ospitandolo ai Cahiers, Roberto Rossellini nondimeno fa la figura dello scroccone: prima, riempiendosi le tasche dei tramezzini del buffet; poi, chiedendo dei soldi a Godard.
Sapranno i nostri cineasti o, meglio, un americano ben disposto rispondere a cotanto affronto?
PS Nel mentre, possiamo chiedere a Linklater un bel Neorealismo, per il Concorso di Venezia 2026?