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Nino. 18 giorni
“Di chi sono i nostri giorni?” si chiedeva il presidente di Paolo Sorrentino ne La grazia. Sono nostri, anzitutto nostri, sembra rispondere Toni D’Angelo in Nino. 18 giorni, presentato Fuori Concorso a Venezia 82. Che in quel titolo apparentemente ermetico torna al periodo che separa la sua nascita al primo abbraccio del padre, all’epoca ventiduenne e già star impegnata in un neverending tour (era a Palermo con la sua prima sceneggiata). Sono i giorni dell’attesa e del tormento, l’amore immolato sull’altare del lavoro, un tempo perduto da riconquistare su cui si edifica questo documentario accorato e privato, capace di intercettare le ragioni e i sentimenti di uno dei cantautori più importanti del Paese.
Un artista da sempre sottovalutato o snobbato, comunque “benedetto” da Goffredo Fofi che lo celebrava quale “autentico inventore musicale” la cui presunta “astuzia” è da considerare “a livello dell’ambiente da cui proviene, povero e napoletano, e non a quello dell’industria musicale alla quale è approdato”. Una lettura che ha fatto scuola ma che non deve servirci da comoda legittimazione culturale: con le sue caratteristiche al crocevia tra racconto biografico e diario intimo, Nino. 18 giorni segue D’Angelo in uno degli ultimi tour e sulle tracce dei luoghi d’origini, tra Napoli e Casoria, e ci restituisce soprattutto il ritratto di un uomo meravigliosamente e consapevolmente complesso.
È l’origin story di un povero diventato ricco, un figlio devoto fattosi premuroso padre di famiglia, un artista incompreso “riscoperto” relativamente presto, uno che è caduto più volte e si è rialzato nonostante le ferite. Toni D’Angelo monta repertorio noto e meno visto, teche Rai e home movies, rende omaggio alla statura morale e artistica del padre attraverso gli attestati di stima più imprevedibili (Miles Davis, per dirne uno), la rivalutazione (i premi per Tano da morire, l’exploit Senza giacca e cravatta) e gli interventi televisivi che ce lo riconsegnano spontaneo e antiretorico.
Ed evita il tipico pedigree del documentario biografico (le interviste ad amici e collaboratori, i capitoli obbligati, la vocazione agiografica) e si mette in prima linea, non solo narrando e commentando ogni immagine che non lo vede coinvolto direttamente (il dialogo con il padre è costante, a tratti commovente come quando spiega il motivo per cui la famiglia si è trasferita a Roma) ma anche facendo una sorta di resa dei conti con gli atti mancati di una relazione, una confessione con i non-detti mai affrontati, una – forse – definitiva riconciliazione con fantasmi personali e dolori nascosti. E alla fine si riappropria di quei 18 giorni del titolo, diventando, in fondo, il vero protagonista del film. “Di chi sono i nostri giorni?”, appunto.