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Noomi Rapace in Mother
Secondo il mai troppo rimpianto Tommaso Labranca, il trash – un termine-mondo ormai completamente svuotato e incompreso dai suoi utilizzatori – consiste nell’emulazione fallita di un modello alto. Il trash sta nel concepirsi diversi da ciò che si è, nel desiderio che si scopre insoddisfatto, nelle intenzioni che si scontrano con i risultati. Ma il trash ha a che fare anche con il dilettantismo, con il “buon cattivo gusto”, con la negazione della forma. E quindi non bisogna confonderlo con il kitsch, che però si regge su una teoria analoga (i risultati tradiscono le intenzioni) ma con un supplemento di inconsapevolezza.
C’è la scintilla del kitsch in Mother, film d’apertura della sezione Orizzonti a Venezia 82 (in Italia si intitolerà Teresa – La madre degli ultimi), che di Madre Teresa di Calcutta non è il biopic canonico quanto una rielaborazione di un momento preciso della sua missione: quando, nell’agosto del 1948, la religiosa, all’epoca madre superiora del convento delle suore di Loreto a Calcutta, aspetta la lettera dal Vaticano che le permetterà finalmente di lasciare il monastero e creare un nuovo ordine. Sette giorni che mettono alla prova la fede e le ambizioni della suora, alle prese con un gigantesco dilemma che affronta la questione della maternità.


Noomi Rapace in Mother
(Entre Chien et Loup)Nata a Skopje come Teresa, la nord-macedone Teona Strugar Mitevska ha impiegato venticinque anni per realizzare questo progetto, che arriva dopo un documentario girato a Calcutta seguendo le ultime consorelle ancora in vita. E dopo Dio è donna e si chiama Petrunya, il film che l’ha più o meno imposta a livello europeo, non può non approntare un’ulteriore riflessione sul rapporto tra le donne e il sistema patriarcale, tra chi si fa testimone di una vita accanto agli ultimi e gli uomini che guidano la Chiesa alle più alte sfere.
Ma è solo un pezzo di questo ritratto che non si confronta fino in fondo con le beatitudini e le controversie di una figura che ha segnato la storia del Novecento, che mette in scena una sorta di confessione – tra l’altro per mezzo di un uomo, un sacerdote con il quale il rapporto è perlomeno ambiguo – sulla vanità del sentirsi indispensabili a Dio senza poi prendersi carico degli effetti di quelle parole.
Il problema non è prendere posizione o meno, fare un film pro o contro un personaggio amatissimo da molti eppure divisivo: è che non si può lanciare la pietra e nascondere la mano, celarsi dietro effettacci didascalici (la stanza che si stringe), allegorie d’accatto (il sangue in ogni sua forma), ipotesi di scandaletti (l’utilizzo di un Cristo da parete) per non affrontare la carne viva di una donna colta nella sua molteplicità, fragile e volitiva, dura e tormentata, altruista e superba (Noomi Rapace è carismatica ma sfuggente).


Noomi Rapace in Mother
(Entre Chien et Loup)Ma ciò che davvero lascia perplessi in Mother è proprio l’incidente tra le intenzioni e i risultati. Va benissimo che a un certo punto Teresa e le consorelle si ritrovino in una sorta di straniante parentesi heavy metal o che un suggestivo anacronismo punk attraversi questo mondo lontano: non c’è niente di distonico né di disturbante, è tutto perfettamente allineato a quel che resta della lezione postmoderna.
Non è questo a essere kitsch: il kitsch sta nel far parlare tutti in un inglese fasullo e spersonalizzante, in una regia che non ha molte altre idee oltre a collocare i personaggi nella parte bassa dell’inquadratura quasi a ricordarci che c’è sempre qualcuno al di sopra, nelle immagini che cercano l’estasi e trovano l’imbarazzo (il salvataggio in extremis, la “Pietà” a letto, la chiave nella serratura, il lebbroso che si eccita).