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Miroirs No. 3
Con Miroirs No. 3, Christian Petzold torna a esplorare il territorio instabile dei fantasmi, del doppio, e della memoria, nonostante il film si ancorI più decisamente a un realismo austero e privo di esplicite aperture fantastiche rispetto ai precedenti lavori del regista. Eppure, paradossalmente, questo minimalismo accentua l’enigma, trasformando il quotidiano in superficie inquietante e levigata, su cui il fantasma cinematografico può riflettersi, anche senza palesarsi.
La premessa è apparentemente semplice: Laura (Paula Beer, ancora una volta volto ideale per i giochi di specchi petzoldiani), sopravvissuta miracolosamente a un incidente d'auto, entra nella vita di una famiglia che la ospita, ne cura le ferite invisibili, diventando a sua volta la medicazione di un dolore nascosto, rimosso. La donna che visse due volte, Hitchcock inevitabilmente evocato, trova qui una declinazione più intima e meno vertiginosa, ma non meno autentica nella sua riflessione sul lutto e l’impossibilità di accettare la perdita.
Se è vero che Petzold stavolta sceglie di restare nella linearità, la densità del film risiede altrove: nei gesti quotidiani, negli sguardi sfuggenti, nelle tensioni sotterranee dei dialoghi, in quella casa di campagna che diviene palcoscenico ambiguo tra protezione e isolamento, tra calore domestico e claustrofobia. Il fantasma, per Petzold, non è necessariamente un'apparizione sovrannaturale ma una presenza perturbante che s’insinua nei dettagli ordinari, nell’assenza-presenza di chi manca e viene rimpiazzato.
Il cinema stesso diventa il vero fantasma: la memoria visiva, che altera la realtà, rendendola simulacro. La trama è infatti soltanto apparentemente trasparente, nascondendo sotto una superficie ordinaria quella "velatura ambigua" tipica del cinema di Petzold. Ecco allora che il fantasma non ha bisogno di mostrarsi, perché è già presente nel modo in cui i personaggi si muovono, si guardano, mentono a sé stessi e agli altri. Il "gioco di specchi" forse qui è meno esplicito, ma non meno insidioso: specchiarsi nell’altro significa tentare una riconciliazione impossibile, che il film sviluppa in modo meno immediato ma certamente non meno profondo rispetto a titoli precedenti come Phoenix o Undine.
Petzold lavora per sottrazione, puntando sull’essenziale, su una geometria asciutta delle emozioni, dove la tragedia non è mostrata ma suggerita, sospesa, sempre pronta a emergere. Anche il riferimento all’acqua, elemento centrale nella trilogia cui appartiene questo film, diventa immagine poetica di un trauma che galleggia, affiora, affonda nuovamente, lasciando sempre una traccia indistinta. In questo, il regista conferma la sua vocazione a un cinema fatto di ambiguità e sfumature, che trova nell’apparente semplicità delle situazioni una ricchezza interpretativa inattesa.
Certo, qualche passaggio appare più artificioso, qualche personaggio secondario meno incisivo, eppure la grazia formale di Petzold compensa ampiamente, trasformando anche il dettaglio meno convincente in elemento di un quadro complessivo rigoroso. La musica, evocativa e sottile, sostiene questa dimensione fantomatica: è la chiave di accesso verso una realtà parallela, che è poi quella del cinema stesso, luogo privilegiato in cui il tempo può essere riavvolto, i lutti elaborati simbolicamente, le assenze riempite da una presenza effimera.
Miroirs No. 3 è dunque un Petzold in tono minore, ma non meno autentico nella sua indagine sulle ombre della memoria e sul potere del cinema come specchio deformante e curativo. Un film che forse chiede più tempo e più attenzione per svelare pienamente la sua profondità, ma che già al primo sguardo rivela l’inconfondibile mano di un autore che conosce perfettamente il valore evocativo e perturbante dell'immagine.