Con uno schiaffo l’adolescente Marielle diventa telepatica. Papà Tobias e mamma Julia, smascherati nei loro segreti, spiati nella loro intimità, prima provano a usarla, poi liberano i lori istinti, infine cercano di riunire i cocci del nucleo famigliare.

Battezzata alla Berlinale 75 (Menzione speciale del Guild Film Prize), transitata Oltreoceano al Tribeca e a Chicago 2025, in Italia dal 27 novembre con Lucky Red, l’opera seconda di Frédéric Hambalek (in principio fu Modell Olimpia, anch’esso dramma famigliare mai distribuito in Italia), ballando tra il surreale e l’assurdo, trapianta un innesco da superhero movie (la giovane protagonista a cui piove addosso un potere soprannaturale) per una radiografia della famiglia borghese contemporanea a forte carica intellettualistica.

Cinema come pretesto, dunque, come mezzo d’analisi del microcosmo famigliare, che si focalizza su non detti, inganni, tacite menzogne, sbriciolando il delicato sistema di equilibri e soppesi instaurati tra coppia e figlia.

Recitazione trattenuta e ponderata (nel terzetto recitativo, spicca Fredrix Kramer, impressionante nella capacità di entrare nella pelle di un uomo autoritario e immaturo), scrittura assai soppesata per un cinema simbolicamente d’interni dalla minimale componente visiva, dalla ridotta componente narrativa che favoriscono un profondo profondo portato psicoanalitico.

Il regista recupera un nucleo filosofico fin troppo usurato dal cinema –l’essere umano che, liberato da norme e convenzioni sociali, libera gli impulsi repressi – e filma la sua sceneggiatura con una certa, sorniona spietatezza. Mette spalle al muro la coppia borghese nella società capitalistica, parteggia per le giovani generazioni e ne porta a galla inganni, traumi e tacite convenzioni.

Finisce sbertucciato, così, pur con una certa esiziale pruderie (ma perchè?) un desiderio sessuale espansivo, non monogamo e in quanto tale stipato dentro una convenzione, inaridito dal primato affettivo, accanto alla smania di potere di un editor che ricorre alla violenza per ribadire le gerarchie con il suo gruppo di lavoro.

Hambalek de-idealizza la famiglia contemporanea, ma ne ribadisce comunque il primato morale, il suo principio ordinatore nella società, concedendosi un finale aperto e ambiguo. 

Il film, tuttavia, si gioca le sue carte migliori approfondendo il paradosso generazionale: potere ad una pre-adolscente (la semi-esordiente Laeni Geiseler, glaciale e misurata, è già convincente) per capovolgere lo sguardo, ribaltare i ruoli di forza, svolgere il suo conflitto edipico controllando d’improvviso la vita interiore dei genitori.

Eppure sui titoli di coda pervade la sensazione d’una grossa occasione mancata. Hambalek intorbidisce la commedia dell’assurdo per un copione che sa forgiare tre personaggi prismatici con poche pennellate, ma che in fondo rimane in superficie, preferisce intrattenimento e psicologismo spicciolo all’estremizzazione dei conflitti: con un potere simile la protagonista avrebbe potuto rivelare ben altri abissi e intenzioni o spingere fino in fondo il gioco al massacro con i genitori.

Hambalek, però, non ha, per intenderci la cruenza espressiva del miglior Avranas, non è neanche il Lanthimos formato famiglia allegorica. Pianta ma non affonda il coltello, si preoccupa di controllare l’eruzione, prima di distruggere e poi di recintare il nido famigliare, ricucire gli affetti, rammendare i rattoppi.

Vorrebbe solo spingere all’immedesimazione per urticare, se non addirittura scandalizzare tramite la mania di potere e le fantasie sessuali represse del mondo degli adulti. Tutto qui?