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Des preuves d’amour
Un battito. Una voce metallica. Le parole dell’Assemblea Nazionale che, nel 2013, sanciscono una nuova frontiera: matrimonio e adozione per le coppie omosessuali. Des preuves d’amour di Alice Douard si apre così, come una dichiarazione d'intenti. Ma più che sovvertire o mettere in crisi, osserva e accompagna.
Céline (Ella Rumpf, sguardo affilato e vulnerabile) aspetta una figlia che non porta in grembo. È Nadia (Mona Chokri) a farlo. Eppure è Céline che deve guadagnarsi il diritto a esserci, a firmarsi madre, in un percorso che passa attraverso prove scritte, testimonianze, dichiarazioni che ricostruiscono agli occhi della legge ciò che la vita ha già reso reale.
Il film di Douard si muove con naturalezza tra intimità e procedura. Ogni tappa dell'adozione è anche una microfrattura emotiva. L’architettura narrativa, scandita dal tempo della gravidanza, è solida; la regia, discreta e calibrata, lascia spazio al respiro degli attori. Noémie Lvovsky, nei panni della madre di Céline, aggiunge una tensione familiare che riecheggia, stratifica. Ma qualcosa manca. Se l’obiettivo di raccontare la quotidianità di un amore e di una genitorialità non convenzionale è centrato, Des preuves d’amour si limita troppo spesso ad accompagnare i suoi personaggi senza davvero interrogarli.
La materia è esplosiva — maternità, legge, identità, riconoscimento — ma il film la tratta con un tono di costante conciliazione, senza forzarne mai le contraddizioni, senza affondare nei conflitti interiori che pure sfioriamo. Il rischio è che tutto scorra con una dolcezza rassicurante, dove il sorriso e la solidarietà stemperano ogni possibile urto.
L'adozione, il bisogno di legittimazione, il rapporto con la madre assente: nodi che avrebbero meritato una tensione maggiore, un'incisione più profonda. Scelta consapevole, certo: Douard vuole parlare di amore e non di scontro, di gioia e non di rivendicazione. E questa volontà di sguardo pacificato — rara, anche preziosa — conferisce al film una grazia lieve, una vitalità calorosa che avvicina più che dividere.
Ma proprio per questo, Des preuves d’amour finisce per galleggiare tra racconto e ritratto, senza mai davvero lacerare, senza lasciare cicatrici. Un’opera prima compiuta, limpida, accessibile. Ma forse — proprio nella sua scelta di semplificare — priva di quel brivido necessario che trasforma un racconto personale in una vera interrogazione universale.