Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), cinquantenni con qualche arte, vivono per l’ultimo bicchiere. Una notte, in macchina da un bar all’altro, trovano Giulio (Filippo Scotti), timido studente di architettura: l’incontro non sarà senza conseguenze.
È Le città di pianura, opera (prima)seconda di Francesco Sossai, in carnet il corto Il compleanno di Enrico (2023) e l’esordio, diploma di regia a Berlino, Altri cannibali (2021), passato a Torino.

Un road movie di gusto provinciale e sostanza esistenziale, che passa a Un Certain Regard di Cannes 78 con merito e ambizione: non abbiamo visto molte cose più soddisfacenti nella produzione italiana ultima scorsa.

Sceneggiatura del regista con Adriano Candiago, montaggio dirimente di Paolo Cottignola, fotografia smagata di Massimiliano Kuveiller, musiche originali di Krano, è un film in direzione contraria ma non ostinata, tutto al maschile ma non tossico, tutto di pianura ma con saliscendi umanissimi: un buddy movie, anche, che della provincia veneta non distilla il meccanico, ma il sentito, non il dialetto, ma l’esperanto.

Tra l’antropologico e il surreale, l’annaffiato e il liminare, Sossai tira il sasso e non nasconde – troppo - la mano, chiedendo ai due moschettieri col gomito alzato e l’apprendista Giulio di portarsi via e portarci dentro, sulle orme di Mazzacurati e i disimpegni di Jarmusch, e il sentire/sentore di Kaurismaki – e la verticalità, ehm, estrema di Carlo Scarpa.

Abbastanza pazzesco, per splendida inattualità nel nostro cinema, per idea, misura e tenuta. Si direbbe, e lo diciamo, che abbiamo un autore in fieri, compreso e indomito, razionale e libertario, vero e perfino misericordioso.

Nel cast Roberto Citran (uno spasso di senso l’arrivo in elicottero alla fabbrica, e chi vi ricorda il suo megapresidente? Giusto, Fantozzi) e Andrea Pennacchi (un po’ tanto dimenticato dallo script), Scotti e Romano sono diligenti e qualcosa di più, il frontman del Teatro degli orrori Capovilla mostruoso, ché fa cinema appena inquadrato, e Sossai li usa tra serio e faceto, chiedendo alla pellicola l’identità, all’italiana la commedia, alla veneta la presa del reale, a sé stesso l’affabulazione con gli occhi lucidi, la voce roca, di chi molte ne ha viste.

E ancora ne ha: da farci bere, pardon, vedere.