Se la prende comoda Rupert Wyatt. Pure troppo. Tre quarti d'ora per azzerare la memoria e ridefinire personaggi e contesto, temi e intenzioni. Poi il film va come deve andare, fluido e spettacolare, senza intoppi.
L'alba del pianeta delle scimmie è qualcosa di più di un blockbuster: è un blockbuster intelligente. In fondo lo scimpanzè con inaspettate capacità cognitive è figura stessa del film a paragone con il decerebrato standard hollywoodiano (la stupida scimmia). La calma con cui decide di procedere, dilatare il racconto, economizzando sull'adrenalina pura e semplice, è una nota di merito. Cresce - per intensità, ambizione, audacia - insieme alla sua scimmia protagonista, Cesare. Il film è Cesare. Ecco la prima novità di questo prequel: rispetto alla saga che conoscevamo (4 episodi - tra il '68 e il '73 - più un remake, firmato Tim Burton, nel 2001), Wyatt e i suoi sceneggiatori spostano indietro le lancette del tempo, riconfigurando lo spazio e i conflitti che lo attraversano: questo è il pianeta degli uomini, un posto orrendo per scimpanzè, gorilla e orangotango, sradicati dal loro habitat, chiusi in gabbia, ridotti a cavie da laboratorio.
Il gioco di specchi ribaltati che caratterizzava i precedenti (gli esseri umani si ribellavano alle scimmie che li opprimevano) viene ribaltato a sua volta, riportato all'ordine naturale delle cose. Allora è l'ottica ad essere invertita: il punto di vista adottato è quello delle scimmie. Lo si dice esplicitamente nel momento in cui si sceglie di figurativizzare il salto evolutivo del primate con la mutata colorazione dell'occhio (dal marrone al verde). L'occhio, il vedere. Non dimentichiamoceli, sono aspetti fondamentali per cogliere il senso dell'operazione. C'è un'altra scena paradigmatica: è il momento in cui Cesare, ribellatosi al suo aguzzino, afferra il pungolo elettrico (che sembra davvero il testimone di una staffetta) brandendolo come un trofeo. E' il passaggio centrale. Da quel punto in poi la storia diventa la loro, delle scimmie. Cesare inizia pure a parlare. Il Verbo non è più solo una prerogativa umana. 
Va detto che Wyatt non sposa mai del tutto una prospettiva politica. Anzi, mantiene un'ambiguità di fondo: solidarizza con gli scimpanzè per il modo in cui vengono trattati, è vero. Nello stesso tempo però, li considera l'abominio di una sperimentazione scientifica immorale. James Franco interpreta un dottorone che sta mettendo a punto il farmaco in grado di sonfiggere l'Alzheimer. La cura viene testata sulle scimmie. I pericoli sono forse maggiori dei benefici (la sperimentazione produce un virus pericolosissimo per l'uomo), ma il business preme per andare avanti. Con conseguenze inimmaginabili: gli scimpanzé sviluppano un'intelligenza fuori dalla norma, preludio alla loro ribellione.
I limiti della scienza, quelli della coscienza, l'orrore di una Techné senza padrone, costituiscono -più del sottotesto politico/sociale - il vero grande nodo problematico del film. Nulla di nuovo, se non fosse che il modo in cui questo tema viene rilanciato, raddoppiato, dalle soluzioni di messa in scena merita attenzione: per la prima volta nella saga non ci sono attori in carne e ossa a interpretare le scimmie. Ma solo bit alfanumerici. A eccezione di Cesare, e non senza una ragione: lui è il "primo", l'anello di congiuzione tra l'uomo e la scimmia come anche l'ibrido di analogico e digitale, della motion capture applicata alla performance attoriale di Andy Serkis. Un'aberrazione dell'umano. Gli altri primati invece sono tutti interamente ricreati al computer. Copie di un originale inesistente. Simulacri. Eppure, a differenza dei piatti e banalissimi protagonisti umani (da James Franco a Freida Pinto), sono proprio queste "marionette digitali" a sostenere il carico psicologico e affettivo del film. Sono i loro "finti" sguardi a suscitare le emozioni più vere. In loro ci identifichiamo. La loro presenza scenica è pura simulazione, ma ha forza e intensità da vendere. La loro epidermide ha una concretezza più reale del reale corpo degli attori. Wyatt viaggia sulla scia dei pionieri Zemeckis (Beowulf) e Cameron (Avatar). Però è meno consapevole, forse più furbo, di sicuro ambiguo: a parole ammonisce contro le derive della tecnica, nei fatti la esalta costruendo un meccanismo integralmente illusivo, un nuovo modo di fare e concepire il cinema in cui l'elemento umano è marginale, la realtà sorpassabile. Il nuovo pianeta delle scimmie è reboot in senso stretto: inizia daccapo, al di qua del reale e oltre la rappresentazione, con una generazione di immagini che non hanno più bisogno né di modelli né di supporti (non solo la pellicola ma il concetto stesso di impressione fotografica non ha più senso). L'alba di una nuova era cinematografica a tutti gli effetti. Collaterali, compresi.