Metti E.T. nei boschi. Trasformalo in un Gremlin ringhioso. Cambia di genere il protagonista. Contornalo di volti noti al pubblico teen e non. E il pasticci(acci)o è fatto.

L’esordiente Isaiah Saxon al debutto dietro la cinepresa occhieggia, per forma, tecnologia e contenuti, alla Hollywood per ragazzi anni Ottanta e Novanta: incrocia il capolavoro diretto da Spielberg con i Gremlins di Joe Dante e I Goonies avventurosi di Donner (non server rimarcare che, del primo, il regista di Schindler’s List fu produttore, del secondo soggettista).

Il confronto con i succitati padri nobili, però, è improponibile. The Legend of Ochi, prodotto dalla rampante A24, nonostante gli applausi di critica all’ultimo Sundance Film Festival, è un fantasy formato famiglia sgangherato, derivativo e arraffone; la voce autoriale (di solito consistente negli esordi) qui marca visita. Il cineasta si rifugia in un cast di grido, in una morale trasparente e fin troppo prevedibile, nell’evocatività materica delle atmosfere, senza radicalità espressiva perché preda sin da subito delle convenzioni del e di genere.

Il film, pur nell’apprezzabile tavolozza sgargiante (Evan Prosofsky fotografa, Jason Kisvarday scenografa), rimane azzoppato da un ritmo che procede per sbalzi e scatti e asfissiato pure dalla rombante musica sinfonica di David Longstreth.

La trama ruota intorno all’adolescente ribelle Yuri (la platinata Helena Zengel, rivelatasi in System Crasher): cresciuta senza madre in Carpathia, aspra isola del Nord, disprezza papà Maxim, crudele cacciatore di Ochi (un Willem Dafoe che continua a inanellare e destrutturare ruoli istrionici, stralunati e patriarcali), fugge da casa, cerca la madre mentre incontra, si lega, empatizza e comunica con un piccolo cucciolo di Ochi,  anch’egli in cerca della famiglia perduta.

The Legend of Ochi
The Legend of Ochi

The Legend of Ochi

Saxon, anche sceneggiatore del film, con una pura regia di servizio, inanella gli archetipi più paludati del (doppio) coming of age – l’eroina che rifiuta famiglia e società, sceglie l’avventura solitaria, incontra e accogliendo il diverso – per srotolare uno script tradizionale e sconnesso, che predica l’armonia, la similarità emotiva, la consanguineità, l’interdipendenza tra uomini e animali (fuor di metafora tra il sé e l’Altro in sé), ma si mostra incapace di sfumare e problematizzare i protagonisti, rifugiandosi, invece, acriticamente nell’usuratissimo, ormai, dualismo di genere: creature femminili (oltre alla protagonista, una Emily Watson in versione madre aiutante) incensate perché capaci di immedesimarsi e comprendere il regno animale, contro l’ottusità mortifera e crudele dei comprimari maschili, tutti, sbeffeggiati. Come Petro (un pallido Finn Wolfhard, icona di Stranger Things, più funzionale allo star system che alla trama) che guida un manipolo anonimo di giovinetti con fucile in mano, agli ordini di un grottesco Defoe che caccia gli Ochi bardato d’una improbabile, anacronistica armatura medioevale (indovinate cosa succederà quando si svestirà delle corazze?).

Sicuramente merita apprezzamento la veste formale del film, realizzato tutto in analogico, che omaggia proprio i fantasy anni Ottanta: dominano animatronic, pitture matte e pupazzi, latitano sostegni digitali e Intelligenza Artificiale.

Ma la devozione poetico-stilistica non basta per fare un film.