Non ci sono certezze storiche che stabiliscono eventi e responsabilità degli atti che stanno alla base del “sacrificio” di Ipazia, filosofa, matematica e astronoma vissuta tra il IV e il V secolo ad Alessandria d’Egitto. Soprattutto non è certo che a decretare la condanna e l’esecuzione della donna sia stato Cirillo di Alessandria, riconosciuto padre e dottore dalla Chiesa cattolica, nonostante il film gli attribuisca un nesso inequivocabilmente dichiarato.

Ma al di là dell’accertamento delle responsabilità, non spetta a questa riflessione portare avanti tesi e confutazioni. Ci vorrebbe uno studio storico-filologico accademico ad hoc. Ci fermeremo perciò al contenuto del film, alla qualità artistica e tecnica della messa in scena, e alla lezione di umanità che si evince dalle intenzioni narrative. La negazione dell’ecumene antropica e del valore costruttivo del dialogo è pericolosa e può generare integralismi ottusi, ancora oggi di impressionante attualità.

L’Ipazia che ha preso vita dall’eccezionale interpretazione di Rachel Weisz, rapisce ed è impossibile non lasciarsi cogliere visceralmente da sentimenti di compassione per una donna il cui acume e la cui libertà intellettuale hanno suscitato astio e pregiudizio. Più volte si fa riferimento alla “condizione” di donna, nata in una società amministrata politicamente e culturalmente dall’uomo, in un periodo in cui il patriarcato aveva raggiunto uno dei suoi apici più rappresentativi, avallati dalle religioni, persino quella pagana, che mal sopportavano la possibilità di “competere” e dialogare con una “femmina”.

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L’epoca riporta a una Alessandria che non è più la città aperta e tollerante che avevano creato gli ellenici. È una città che sta per perdere la sua missione di custode del sapere antico, e che sta per estinguere la sua naturale tolleranza. L’Agorà, luogo del confronto aperto e armonizzante, si è trasformata in quello della disputa e del conflitto. Le parole non servono più a conciliare, ma a infiammare polarizzazioni estremiste, violente.

Nonostante la novità del Cristianesimo, l’Ebraismo illuminato della Diaspora, il sapere neoplatonico delle sapienze pagane, Alessandria è una città che ha smarrito la partecipazione cooperante, e ha trovato nel privilegio e nella retorica magniloquente l’arma della convinzione, del controllo e della conquista del potere. In essa operano personalità magnetiche che gestiscono e marcano il pensiero, le opinioni e le libertà. Perciò l’emancipazione di una donna disturba dignitari e patriarchi.

“Ipazia assoggettata a un uomo senza la libertà di insegnare e di parlare liberamente è impensabile, assurdo”, afferma il padre Teone, anche lui filosofo, che l’ha generata e la conosce bene. Ipazia è una vergine votata alla sapienza, alla bellezza, all’armonia del cosmo e delle stelle. E non la frigida che non sa amare, né Oreste, futuro prefetto della città, né Davo, lo schiavo fanatizzatosi perché non ricambiato. Il fazzoletto sporco di sangue mestruale è una dichiarazione di verginità per la Sapienza.

Amenábar è riuscito a ricostruire un tessuto sociale con precisione filologica coerente e vi ha impresso un realismo visivo moderno, una cronaca dei pericoli derivanti da radicalismi di moderne ideologie dalla variegata religiosità laica e liberale, tornati operanti nell’oggi dell’uomo che ha conquistato orizzonti inimmaginabili, senza però approfittare dei moniti della storia. La macchina da presa si muove come quella di un cronista che segue e documenta tutto alzandosi sino a superare l’atmosfera e navigare nella pace dell’universo.

Il film è ricco di metafore visive che danno il senso dell’armonia cosmica a cui aspira la sapienza umana o, al contrario, dei movimenti disordinati dello scontro violento. In tal senso, sono sintomatiche le immagini delle pecore senza pastore, o ancor più delle numerose formiche che escono dal formicaio senza seguire una direzione e che assomigliano tanto agli esseri umani che hanno creato il caos in quella città che poteva segnare la rinascita dell’armonia umana.

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Singolare la scelta di ribaltare l’equilibrio delle cose capovolgendo la cinepresa di centottanta gradi. Gli effetti speciali, di grande realismo visivo, allontanano il punto di vista dello spettatore immergendolo nella pace silenziosa e infinita del firmamento, o facendolo precipitare nella brutalità rumorosa della contesa. Anche questo movimento si rivela come gesto di una divinità che non riconosce ciò che ha creato, insegnato e coltivato.

Le parole umane hanno perso la forza delle Beatitudini cristiane proclamate da Teofilo prima della sua morte, ma la potenza retorica di Cirillo che usa quelle di Paolo (“Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo”) per ottenere l’eliminazione dello scandalo: “Due cristiani nelle mani di una Pagana. È un oltraggio!”: solo così il parabolano può motivare la sua trasformazione da diacono che si prodiga per la distribuzione del pane ai poveri, a soldato, armato di spada, pietre e bastone contro le altre fedi, il degrado morale e l’eresia.

Agorà è un film privo di amore, di pietà, dove la libertà è sub condicio e dove la verità non rende veramente liberi. La vendetta può scaturire dalla verità, ma non appartiene al vangelo di Gesù che chiede di imparare a perdonare secondo la logica custodita nella politica del Padre nostro. E non è solo Lui che può mostrarsi tanto clemente. Quando la parola perde il suo nord “cristiano”, cioè la carità, rischia di trasformarsi in radicalismo. E il cristianesimo senza carità e le sue declinazioni è falso, vuoto fanatismo. L’apostolo Pietro insegna: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Ma questo sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza”. “Agorà”, allora, “colpisce alla testa e al cuore!”.