Scocca subito una freccia: ironica, lieve, affilata. La venue de l’avenir, il nuovo film di Cédric Klapisch presentato fuori concorso a Cannes, non ha bisogno di gridare. Non pretende di riscrivere il cinema. Ti prende per mano, ti racconta una storia, ti lascia qualcosa addosso. Come certe giornate normanne: iniziano col sole, finiscono con un pensiero. E nel mezzo, un sorriso.

Siamo di fronte a un classico film à tiroirs, come direbbero i francesi: una mise en abyme morbida e flessuosa, dove le vite di oggi si rifrangono in quelle di ieri, dove un’eredità da sistemare diventa il pretesto per riannodare fili familiari e generazionali. Klapisch mette in scena quattro parenti – influencer svogliato, apicoltore anticapitalista, prof dal cuore semplice, ingegnera senza respiro – che si ritrovano in una vecchia casa normanna, e da lì... giù nel pozzo della memoria.

La venue de l’avenir di Cédric Klapisch
La venue de l’avenir di Cédric Klapisch

Il cuore pulsante del racconto è Adèle Meunier, una giovane donna che alla fine del XIX secolo lascia la provincia per Parigi. Le sue lettere, le sue tracce, riemergono. E il presente, così affannato e sghembo, si scopre specchio pallido di un passato pieno di sogni. Il film si biforca, si sdoppia, danza tra i secoli: pittori, fotografi, bohémiens della Belle Époque fanno da contrappunto a creatrici di contenuti, storiche dell’arte Instagrammabili e frenesie postmoderne.

La prima scena è una dichiarazione d’intenti: in un museo, una modella – bellissima e vacua, ah, i cliché, Monsieur Klapisch! – tenta di modificare digitalmente un quadro perché “non sta bene col vestito”. Ecco, è qui che l'autore affonda il bisturi bonario: nella moda del presente, nel culto dell’apparenza, nella velocità che schiaccia la profondità. Eppure non c’è livore. Solo un’alzata di sopracciglio, una carezza ironica. Il moralismo c’è, ma è quello buono, quello che ti fa sorridere mentre annuisci.

La venue de l’avenir di Cédric Klapisch
La venue de l’avenir di Cédric Klapisch

La venue de l’avenir si inserisce con grazia nel filone tematico che sembra dominare quest’anno sulla Croisette: la necessità di riguardare indietro, di riassemblare i cocci del tempo per comprendere il presente. È un film che non ha l’urgenza di sorprendere, ma quella – ben più sottile – di ricordare. E nel ricordare, riconciliarsi.

Sì, certo, c’è chi storcerà il naso: troppi personaggi, un impianto corale che a volte sbanda, qualche cliché di troppo. Ma c’è anche quella leggerezza “impressionista” che è il marchio di fabbrica del regista di L’auberge espagnole e Russian Dolls: una joie de vivre che aleggia come una brezza sottile. Non è un film che segna. È un film che passa. Ma passa bene.

E poi c’è quella battuta, lasciata in chiusura dal più giovane dei protagonisti, che riassume tutto: “Ho inseguito da sempre il futuro, ma guardare al passato mi ha fatto bene.” Vale per la vita, vale per il cinema. E vale per Klapisch, che con questo film sembra dirci che, prima di inventare il nuovo, possiamo ancora (e forse dobbiamo) rovistare tra le pieghe dell’antico. Non per nostalgia, ma per lucidità.

Non è un capolavoro, La venue de l’avenir. Ma è un film che fa bene. E oggi, non è poco.