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Il taccuino del regista
C’è nel Taccuino del regista il titanismo dell’uomo solo strapazzato dal folle turbinio della Storia; il senso di lutto perenne e quello dolcemente lancinante per un passato perduto; l’urgenza di radunare, fissare e consegnare allo spettatore slanci, snodi, orrori del Secolo Breve conficcando la questione privata negli ingranaggi letali della Storia; la tensione marxista ad identificare e derivare la propria poetica dalla Politica, quella enciclopedica a conoscere tutto senza non nascondere niente, nonché l’ostinazione etica di rispondere alle bombe con la bellezza, ai massacri con l’arte.
C’è tutto questo e molto altro nell’ultima fatica del decano del cinema russo. In primis uno studiolo, un taccuino, una penna, una pila di scartafacci. Sokurov segna, cancella, riscrive, fissa, elabora, ricorda, si costerna, si sgomenta, si consola. Anno per anno, allarga il compasso, traccia linee, riannoda i fili: dal fatidico 1917 al fatale 1991.
Il taccuino del regista o dell’enciclopedia visuale del Secolo Breve. Dalla Russia con amore e come cono d’indagine (dalla Rivoluzione al suo tradimento) per un film titanico (più di cinque ore di doc, tra i più lunghi della storia del cinema), aggettante, sincretico, locale eppure cosmopolita: l’analisi parte da Leningrado – “una città che non mi ha mai reso felice” - percorre l’Europa, il Mondo e ritorna a casa. E poi ancora.
Il moto centrifugo fonde l’impostazione storiografica nel doc, le matrici pittoriche nel linguaggio giornalistico, l’ossatura letteraria nei piani visivi della cinema, i codici da réclame nel commento sonoro operistico, i cinegiornali propagandistici nell’opera; Sokurov cerca di annettere il privato al Pubblico, il particolare al generale, la sua famiglia alla Storia.
E prova controllare cronologicamente la messe di fatti ed eventi, riconducendoli ognuno al suo anno, ma il movimento è programmatico e unilaterale: i rimuginii famigliari, i conflitti edipici irrisolti, i rimpianti affettivi rimangono una traccia, un’ipotesi, un istinto di poetica. Perché su tutto (tra)passa il rullo compressore della Storia.
Alla sincope dell’identità, alla rimozione o, se si vuole, confusione, di una poetica espressionistica corrisponde l’affermazione - orrore per orrore, insensatezza per insensatezza – del secolo più carcerario e sanguinolento (per ora) dell’umanità. Sfilano inarrestabili carri armati, parate, bombe, dittatori, generali, filantropi e assassini, patti (rotti), massacri, guerre, genocidi, catastrofi umane, naturali, nucleari. Sokurov cerca l’oggettività impassibile, convoca il fuoricampo sonoro e visivo e trova l’amarezza disarmante, il risentimento sussurrato a denti stretti, ma non per questo svigorito. Prova a carotare eventi, cause e conseguenze per immunizzarsene ma arriva, sempre, all’umanità dei vinti, ai sommersi dalle macchinazioni del potere, al sol dell’avvenire oscurato da persecuzioni, piani ed efficientismo, alla dignità proletaria calpestata (“il lavoro aumenta, i salari diminuiscono” ringhia un lavoratore russo. Sessant’anni fa. E anche adesso). Prova persino a rispondere a Tito con Wajda, a Stalin con il suo maestro Tarkovskij, a Thatcher con Godard, a Reagan con Bergman, Fellini e Mandela. E così via.
Ma la lotta soccombe, se le promesse di pace sono tradite, ideali e ideologie perdono senso, il capitalismo trionfa, dislivella e sbrana. Così nel taccuino prevale il bianco dello sgomento del rimpianto, la cancellatura nervosa, e scende in clausola l’amarezza su un film che, nonostante il rigore analitico, la volontà testamentaria, la magniloquenza della forma e l’ampiezza sinottica di sguardo, incontrerà non poche grane distributive.
Dopo il battesimo Fuori Concorso a quella mostra di Venezia che gli aveva messo nelle mani il Leone d’Oro per Faust (era il 2011, ma l’orrore di fronte alla mostruosità del potere è, qui, la stessa), sarà difficile vederlo in sala (vuoi per la forma esondante, vuoi per il nocciolo pacifista in tempi di riarmo, nella sua Russia non sarà proiettato): si ricorderà la mannaia della censura russa che calò sull’esordio La voce solitaria dell’uomo. Era trent’otto anni fa. E anche adesso.
Sokurov stesso lo sa e ha le prove: "il Vecchio Mondo non cambia”.