Chissà, forse toccava aspettare che anche il pubblico italiano si accorgesse della stand-up (basta farsi un giro per teatri e club), certo è che ci sono voluti tre anni per vedere Hacks sui nostri schermi (ovvero Netflix) i primi dieci episodi (per quanto resterà inedita la seconda stagione?) di una delle più acclamate comedy degli ultimi tempi, a un mese dall’arrivo negli Stati Uniti del terzo ciclo (dal 2 maggio su HBO Max).

Polifonica e stratificata come il suo titolo (“trucchi” o “attacchi” ma anche “tagli” o “ferite”: il dramedy è una dichiarazione d’intenti), in apparenza si serve di meccanismi consolidati senza ridursi a schematismi, da un’interpretazione estensiva dell’“enemies to lovers” a una variante femminile del buddy (l’accoppiamento bizzarro di due donne destinate a diventare amiche) nella cornice di una relazione tra capo e dipendente qui restituita con ironia e tenerezza.

Ma la cifra peculiare di Hacks sta nell’utilizzo della stand-up comedy non solo in quanto elemento narrativo ma come strumento di scrittura. Una simmetria che dà coerenza alla storia di Deborah Vance, veterana della comicità che infila oltre cento spettacoli all’anno, si presta a qualsiasi evento per assecondare i fan, offre la propria immagine per promuovere un canale di shopping. Capiamo subito, dalla prima puntata, che la signora, come tanti suoi colleghi, passa dall’istrionismo del palcoscenico alla tristezza del privato: quando torna a casa, una villa enorme dove ad aspettarla ci sono i cani (più un assistente annoiato e una croupier a domicilio, mentre la figlia svalvolata cerca invano di emanciparsi), si toglie la parrucca (lo smontaggio dell’icona come introduzione allo svelamento del trucco), cena da sola, si mette a letto e aspetta l’alba di un nuovo giorno, uguale al precedente.

La svolta ha a che fare con il demone delle attrici, cioè il tempo che passa (leggi: l’invecchiamento, le mode): il capo del Palmetto, il casinò in cui Deborah è storica resident, annuncia alla veterana l’intenzione di ridurre i suoi show per attirare spettatori più giovani. E così, all’improvviso, subentra Ava Daniels, una sceneggiatrice ventenne messa al bando dopo un tweet in cui rivelava l’omosessualità di un senatore omofobo: un po’ per disperazione, l’agente di entrambe le donne manda Ava da Deborah e, dopo l’iniziale diffidenza e varie disavventure al limite del lecito (la vedette è celebre anche per aver tentato di uccidere l’ex marito, forse), le due riconoscono l’ambizione dell’una nel desiderio di riscatto dell’altra.

Cripto-ritratto affettuoso quanto acre di Joan Rivers (tantissimi parallelismi e corrispondenze), Hacks è una serie brillante e malinconica (non mancano momenti dolorosi) che mette in scena la costruzione della comicità (far ridere è un lavoro che non cade dall’alto) e riflette sulla sua evoluzione (mirabile il ragionamento su una battuta offensiva che può essere interpretata come stile osservazionale e viceversa, ma anche il passaggio in cui Ava riscopre le vhs dei vecchi show di Deborah) attraverso una protagonista memorabile, trattata con sarcasmo pari al rispetto e interpretata da una strepitosa Jean Smart, feroce e inquieta (Emmy e Golden Globe per lei).