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Julio Pena e Alessandro Borghi in The Captive
Sin dai primi minuti c’è una vaga sensazione di esotismo d’altri tempi in El cautivo (titolo internazionale The Captive, da noi Il prigioniero: la coproduzione è tra Spagna e Italia). La fotografia luminosa fino a farsi patinata, le scenografie e i costumi da grande rappresentazione popolare ci portano nelle avventure del cinema classico, perfino il volto immacolato di Julio Peña (già star delle telenovelas) evoca un divismo antico che, sì la barba lunghetta e qualche cicatrice, ma non ce la fa proprio a sporcarsi e a patire come ci si aspetterebbe da un detenuto.
Il protagonista è un giovane Miguel de Cervantes, reduce dalla battaglia di Lepanto che gli ha fatto perdere l’uso della mano, catturato dai corsari e dunque internato ad Algeri, in attesa che qualcuno paghi l’esoso riscatto di cinquecento scudi d’oro. Ambientato nel 1575, El cautivo è l’origin story di uno dei massimi scrittori dell’umanità: l’istinto di sopravvivenza, l’amore per la libertà e qualche azione troppo audace lo portano a relazionarsi con Hassan Pasha, il temuto governatore di Algeri, un italiano convertito all’Islam che scopre il talento narrativo di Cervantes e si fa intrattenere dai suoi racconti, restando affascinato dalla sua personalità.
Più che un biopic in senso stretto, Alejandro Amenábar segue la lezione di Cervantes – autore e personaggio – e, adottando il metodo della fantasia, costruisce un omaggio all’ingegno nazionale (la Spagna è la patria perduta da riconquistare, ma gli invasori non sono peggiori dei delatori), alla creatività che non è solo artistica ma anche operativa (il piano di fuga), alla vita vissuta come fosse letteratura (subito in campo coloro che avrebbero ispirato le icone di Don Chisciotte e Sancho Panza).
Con la consulenza di Manuel Lucía Megías, tra i maggiori studiosi dello scrittore e autore di Cervantes íntimo. Amor y sexo en los Siglos de Oro, recupera la suggestione queer anche per sottolineare una differenza sostanziale: da una parte, c’è un prigioniero che seduce (inconsapevolmente?) il potente carceriere da cui si scopre attratto sessualmente (e forse sentimentalmente); dall’altra, c’è un’autorità religiosa che dichiara di non credere nell’amore, consuma il sesso solo nell’ottica della sottomissione dell’altro, usa i corpi dei concubini nel segreto dell’hammam, disprezza pubblicamente l’omosessualità.
La rivelazione della chimica erotica – con tutta la componente politica che mette in campo questo desiderio – tra Peña e Alessandro Borghi (Hassan Pasha, di maniera) sembra essere il cuore del discorso di Amenábar (lo conferma la sottotrama “privata” del teologo Antonio de Sosa), meno coinvolto nell’inquadrare il contesto e i suoi abitanti (tutti un po’ macchiettistici), più a disagio nel muoversi tra i fatti storici e le narrazioni di Cervantes, programmatico se non pigro nel far dialogare i due piani per esprimere attraverso i racconti ciò che i protagonisti non possono dirsi alla luce del sole.
E alla fine più che l’origin story – comunque ribadita nel finale per chiudere i conti – resta un fiacco mélo di amore tossico all’interno della relazione tra vittima e carnefice. Amenábar non fa prigionieri.



