Battezzato nella sezione Critics’ Picks del 29° Festival Black Nights di Tallinn, Mo Papa approda nel Concorso del 43° Torino Film Festival: dopo Mo Mamma, e prima dell’intesa conclusione della trilogia con Mo Amor, è il secondo film della talentuosa estone classe 1987 Eeva Mägi, e non è assolutamente disprezzabile.

Diciamo che per almeno metà dei suoi 88 minuti, be’, abbiamo intimamente gridato al piccolo capolavoro, ma poi…

Comunque, con due lire due, due idee due ma ben corroborate, la regista e sceneggiatrice, sebbene ella stessa sconfessi l’esistenza di uno script, inquadra il ventottenne, crapa pelata con inverecondo ciuffo nucale Eugen (Jarmo Reha, è più brutto, ma aspirerebbe senz’altro a divenir uno Yurij Borisov, je piacerebbe…) è appena uscito dal carcere dopo aver scontato dieci anni di reclusione per la tragica e colposa morte del fratello minore.

Il mondo là fuori non è facile, è straniero se non malevolo, e Eugen deve farci dolorosamente i conti: già abbandonato in orfanotrofio, prova a riguadagnare il padre – la madre s’è suicidata dopo la perdita del secondogenito – estraniato (Rednar Annus), cui in segreteria detta le previsioni meteo, e con due amici d'infanzia, l’avvenente e parimenti disagiata Stina (Ester Kuntu) e il nano problematico Riko (Paul Abiline). La proverbiale seconda possibilità è tale o carta straccia, l’autodistruzione à la carte, la riabilitazione sensibile e realizzabile?

Interrogativi buoni per una tranche de vie scorciata ma non monca, laterale ma non ancillare, in cui il tallonamento di Eugen, la semi-soggettiva iterata è dispositivo esistenziale, approccio liminale, trattenimento sull’abisso: non c’è iperbole, ma forza, persino morale, in questo non lasciar andar via, in questo non perdere e non perdersi, in cui Mo Papa si scopre, si vuole cinema – leggi: verbo – deponente, ossia declinazione passiva e istanza attiva.

All’uopo, accanto a interpretazioni di ragione e sentimento, la fotografia di Sten-Johan Lill lavora, a colori, tra neve e disforie umane come in un bianco & nero discretamente espressionista, laddove desolazione e freddezza indulgono in altre, umane temperature e tavolozze: il montaggio di Jette-Krõõt Keedus, memore come le luci di cadenze dardenniane e desistenze kaurismakiane, assevera foggia e natura del gioiellino in fieri, ma.

Man mano s’avanza Mo Papa si prende sul serio, o forse solo sbraca un pochetto, finendo per assumere coordinate di genere, accadimenti già visti, traiettorie esauste: è l’azione il suo problema, l’andare a parare la sua difficoltà, allorché la sospensione innevata e incidentata di luoghi e, Eugen, anime chiede alla realtà che qualcosa succeda, alle cattive compagnie di carburare la sceneggiatura che non c’è, al previsionale lo scioglimento.

Annoverando l’esperienza in una clinica psichiatrica, Mägi descrive Mo Papa non come qualcosa che ha scritto, ma che ha sentito, respirato e vissuto. È vero, ma la quadratura del vulnus, la sistematizzazione del trauma, l’annichilimento della speranza sono un po’ scritte.