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Valeria Bruni Tedeschi e Fanni Wrochna in Duse © Erika Kuenka
A distanza di un anno dalla Callas di Pablo Larraín, un’altra Divina trova il Concorso della Mostra di Venezia. Il regista cileno scelse il nome di battesimo per tentare di inquadrarla già dal titolo, Maria; il nostro Pietro Marcello non può prescindere da quel cognome, così perentorio e ingombrante, per rintracciarne il mito nel momento della caducità: Duse.
Anche qui ci si concentra sull’ultima fase dell’esistenza, ma se nel caso della Callas – la più grande voce del ‘900 – si partiva dall’isolamento che anticipava la sua morte, in Duse emerge sin da subito l’intenzione di assecondarne l’animo nomade ed incline alla “traversata”.
Nel corpo di una straripante Valeria Bruni Tedeschi rivive dunque la più grande attrice della storia del teatro (si concesse un’unica volta al cinematografo, in Cenere di Febo Mari, nel 1916, dal romanzo della Deledda), colta dapprima in una delle sue numerose sortite per rincuorare gli animi dei soldati al fronte durante la Prima Guerra Mondiale: sono gli anni in cui la Duse aveva abbandonato le scene (lo fece nel 1909), salvo poi tornare sui suoi passi per provare a sanare la gravosa situazione debitoria causata dal fallimento dell’istituto bancario dove custodiva i suoi risparmi.


Valeria Bruni Tedeschi e Noémie Merlant in Duse © Erika Kuenka
Pietro Marcello – che firma soggetto e sceneggiatura insieme a Letizia Russo e Guido Silei – non abbandona l’audacia del suo cinema libero da ogni stereotipo, asseconda i continui spostamenti – fisici, emotivi – di una donna irrequieta e antesignana, autodeterminata, inadeguata (l’arco narrativo del suo rapporto con la figlia Enrichetta, interpretata da Noemié Merlant) e idolatrata (molto interessante il modo in cui il film suggerisce, senza troppe didascalie, la natura del rapporto tra l’attrice e la sua assistente, l’austriaca Desirée von Wertheimstein, interpretata da Fanni Wrochna), inquadrata però rifuggendo le logiche della stucchevole agiografia, mossa da un fuoco inesauribile (il suo impegno da capocomica, altro ruolo “futurista” per una donna dell’epoca, nella compagnia popolata da attori come Ermete Zacconi e il più giovane Memo Benassi, interpretati da Mimmo Borrelli e Vincenzo Nemolato) per continuare ad affermare se stessa in un mondo in pieno cambiamento, proiettata verso la fine dei suoi giorni – malata di tubercolosi, morirà a Pittsburgh, ultima tappa della sua tournée americana, nel 1924, a causa di una polmonite –, giorni che combaciavano con l’alba di uno scenario nuovo in Italia, quello del ventennio fascista (Vincenzo Pirrotta è Benito Mussolini).
A Marcello non interessa giungere fino a quel momento, quello della morte, come in Martin Eden ritrova il mare, l’ennesima, forse ultima “traversata” per congedarsi e congedarci da quel volto/maschera che anela solamente “lavorare/vivere/morire”. Perché “l’arte si fa come la guerra, col sangue”.
Si sente piuttosto l’urgenza di plasmare – alternando ancora una volta la ricostruzione/finzione su pellicola al recupero di filmati d’archivio evocativi (su tutti il convoglio ferroviario per rendere omaggio al Milite Ignoto, nel 1921, simbolo di unità nazionale su cui il fascismo mise le mani) – un tessuto intimo, artistico (la sequenza in cui la Duse trasmette l’ars recitandi ad una giovane attrice prima di portare in scena Ibsen – e politico entro cui far muovere un personaggio così decisivo e significativo di quel periodo storico. Rimarcando sempre quanto il teatro le appartenesse. E quanto, allo stesso tempo, la sua vita (gli affetti, la salute) continuava a scivolarle dalle mani.
Ecco allora che la storia d’amore con Gabriele D’Annunzio (Fausto Russo Alesi, al solito sontuoso), già terminata da tempo ma tenuta in vita da un fitto epistolario, nel film viene in qualche modo rialimentata, dapprima accennata (quel biplano in un filmato d’epoca che sorvola il campo di guerra, il bigliettino che viene fatto recapitare alla Duse, “la mia Ghisola”…), fino al definitivo commiato all’indomani della famosa e misteriosa caduta del Vate (nel 1922) dalla finestra del Vittoriale.


Valeria Bruni Tedeschi e Fanni Wrochna in Duse © Erika Kuenka
“Eleonora Duse che non sa riconoscere un attore al di fuori del palcoscenico”: così il poeta che il fascismo fece di tutto per fare proprio sottolinea il precedente incontro tra la sua musa e il futuro dittatore, agli albori di quella che con speranza si voleva quale “rivoluzione di poesia, e di bellezza”, ma che altro non fu se non una “rivolta scimmiesca”.
Nel sempre ambiguo e scivoloso rapporto tra arte e potere, dunque, ecco che Duse prosegue in un certo modo nel solco già tracciato in Martin Eden, ragiona senza preoccuparsi di fornire risposte nette sul dualismo tra volto e maschera, sul mistero di un’icona arrivata sino a noi ma senza alcun documento audio o video (ad eccezione di Cenere), si nutre dei vari riferimenti bibliografici (concedendosi anche il divertito lusso di inserire Giordano Bruno Guerri – già “attore” per Marcello in Martin Eden – in un paio di pose quale assistente di D’Annunzio…) ma – per fortuna, e come d’abitudine nel cinema di Pietro Marcello, dove il reale non può esistere se non passando per la sua trasfigurazione – si premura di smarcare qualunque paletto dato dall’arido biografismo.
Trovando in questo modo la più poetica adesione con la vera natura dell’attrice-divina che racconta, il cui luogo d’elezione era non a caso “la traversata”. Per andare oltre.