Uno dei temi del nostro tempo è come trovare un collegamento tra immagini (ormai un flusso continuo) e realtà. La finzione consente di manipolare gli eventi, nel bene e nel male. La chiave è però saper sviluppare uno sguardo non retorico, che consenta di soffermarsi sul particolare per poi allargare l’orizzonte. Un esempio è sempre stato quello di raccontare il passato per riflettere sul presente.

In questo il regista Gus Van Sant è maestro. Il suo film più bello è Elephant del 2003, che si ispira al massacro delle Columbine High School del 1999. “L’elefante” del titolo è un richiamo alla cultura popolare, significa avere un problema e al tempo stesso far finta che non esista. Quel pachiderma nella stanza è anche al centro dell’ultimo film di Van Sant: Dead Man’s Wire, presentato fuori concorso all’82ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

Siamo nel 1977, la mattina dell’8 febbraio viene rapito il presidente della Meridian Mortgage Company. L’assalitore vuole cinque milioni di dollari per rilasciare l’ostaggio. Sostiene di essere stato tradito dal sistema bancario, e di non avere più nulla da perdere. Che cos’è il dead man’s wire? È un cavo che collega il grilletto di un fucile a canne mozze al collo della vittima. Basta un semplice gesto per immergersi nella tragedia.

Il ritmo è serrato, e naturalmente quel 1977 corrisponde al 2025. Van Sant è un regista ribelle, come i geni che raccontava in Will Hunting. Porta sullo schermo una vicenda scomoda, che solleva una problematica sociale non codificata, un ritratto dei tempi difficili che stiamo vivendo e dell’angoscia che attanaglia le coscienze. Con risvolti comunicativi sorprendenti (come la diretta e il richiamo a John Wayne). Anche in Italia, Antonio Albanese ha girato un film simile intitolato Cento domeniche.

Quello di Van Sant è un cinema controcorrente, che non accetta compromessi. Forse anche per questo ci sono state difficoltà durante la fase produttiva. Dead Man’s Wire è un ulteriore tassello di un talento che spazia su molte venature. Ha sempre una vena intimista (come anche nel suo ultimo Don’t Worry), ma sa come infondere speranza (Scoprendo Forrester). I suoi personaggi sono belli e dannati, o demoni in cerca di redenzione. Ancora una volta Van Sant mette in scena una storia “nera” in cui gli stilemi del genere servono per trovare un equilibrio tra l’intrattenimento e la cronaca. Un film forte, sincero.