Yann Gozlan prende spunto da Les Fleurs de l'ombre, romanzo di Tatiana de Rosnay pubblicato nel 2020, per realizzare Dalloway, thriller vagamente distopico che riflette su uno dei temi attualmente più dibattuti, ovvero il rapporto tra la creazione artistica e la tecnologia nell'epoca di intelligenze artificiali sempre più dominanti.

Presentato in Midnight Screenings a Cannes 78, il film si apre con Clarissa (Cécile de France, già truccata) che dorme in un letto sul bagnasciuga dell'oceano, cullata dal rumore delle onde che si infrangono sulla battigia.

È uno dei tanti comfort che può "creare" per lei Dalloway (la voce in originale è di Mylène Farmer, la cantante che si è esibita nella cerimonia d'apertura del Festival per l'omaggio a David Lynch), l'IA nonché assistente personale che oltre a regolare l'ambiente nel suo appartamento smart-tech è deputata a supportarla nella stesura del suo nuovo libro, incentrato sul giorno che precedette il suicidio di Virginia Woolf (il nome dell’intelligenza artificiale si rifà ovviamente al suo Mrs Dalloway, che non a caso si chiamava Clarissa...).

Insieme ad altri, Clarissa è ospite della Ludovico Foundation, una residenza all'avanguardia che sostiene gli artisti di qualunque disciplina colti nel loro momento di crisi creativa. Ma a quale prezzo?

"Ma man mano che diventiamo sempre più assistiti, sempre più assistiti – esternalizzando gradualmente parti del processo creativo – non rischiamo forse di perdere la capacità di fare le cose da soli? Ciò che inizia come uno strumento neutrale potrebbe benissimo diventare un mezzo di dipendenza, persino di sottomissione. Con strumenti come ChatGPT, non stiamo forse lentamente perdendo la capacità di scrivere, di creare?”, si chiede Yann Gozlan.

Pur ragionando su una questione di enorme attualità, come detto, Dalloway sembra però un film già superato dalla storia, sia reale che cinematografica, intanto per un impianto terribilmente derivativo, poi per una certa piattezza tendente a privilegiare l'apparato suspense a discapito di uno sguardo che non prova mai ad elevarsi rispetto alla "storia" che viene raccontata.

Per carità, è un thriller destinato alla piattaforma (non a caso c'è anche Netflix tra le voci produttive) e, tutto sommato, al netto di qualche svarione eclatante ("Siamo costantemente spiati", "La residenza è solo un mezzo attraverso il quale sfruttare gli artisti per implementare il machine learning" - viene rivelato a Clarissa da Mathias Nielsen, musicista interpretato da Lars Mikkelsen che ha messo su un laboratorio clandestino per tentare di portare a galla le reale intenzioni di CASA, la società a capo di tutto - e lei come rientra lì dentro chiede a Dalloway di fornirle informazioni su Anne Dewinter, interpretata da Anna Mouglalis, la donna che gestisce la residenza...) si lascia vedere non foss'altro per la curiosità di scoprire come andrà a finire.

Poi come troppo spesso accade in casi come questo c’è la tendenza ad infarcire la narrazione con altri mille sottotesti, dalla pandemia globale alle temperature esterne che sfiorano i 50°, passando dal suicidio del figlio di Clarissa (trauma mai superato che si trasforma per un attimo in nuova molla per ricominciare a scrivere...) fino ad arrivare all’accenno di un disturbo maniacale della donna che, ti pareva…, potrebbe rimettere in discussione qualunque cosa.