L’ottantaduesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia si chiude con un film immerso in un futuro poco radioso, ma decisamente pirotecnico. Fuori concorso arriva il cinema di genere firmato dal francese Cédric Jimenez, che conosce le regole del gioco. Il titolo è Chien 51.

Siamo in un domani non troppo lontano, dove la lotta di classe è selvaggia. Parigi è divisa in tre zone, delineate in base al ceto. La sicurezza è affidata a un’Intelligenza Artificiale che ha il potere di generare scenari accurati per risolvere i crimini quasi in autonomia. Ma un giorno qualcosa va storto, e il suo creatore viene assassinato. Due agenti devono scovare il killer, ma il complotto è in verità molto più ampio.

La vena action si mescola alla critica sociale, sfociando anche nel polar, con un evidente richiamo a Minority Report (anche in Chien 51 c’è un’analisi predittiva, ma molto più analitica) di Spielberg. Jimenez è uno dei pochi cineasti che negli ultimi anni si è dedicato alla rappresentazione della polizia. Mai manicheo, dalla regia molto asciutta, aggiunge un nuovo tassello a un percorso iniziato con November – I cinque giorni dopo il Bataclan e proseguito con BAC Nord. A caratterizzarlo è un ritmo serrato, la necessità di rendere empatico un ambiente spesso controverso come quello delle forze dell’ordine.

Jimenez si sofferma sulla fragilità, sulla pressione, puntando però anche sull’adrenalina. È meno riflessivo di Dominik Moll (la cui vetta di La notte del 12 resta irraggiungibile), ama anche la corsa, il movimento. In BAC Nord il suo protagonista si aggirava nel fango, nell’oscurità. Invece in November era un uomo di potere, votato alla ricerca, al salvare gli altri. In Chien 51 a unirsi una coppa “alle antilopi” sono un agente speciale e uno che indaga nei bassifondi.

Per la prima volta il cineasta si distacca dalla realtà, per mettere in scena un mondo sospeso tra fantascienza e distopia. La provocazione è chiara: e se in fondo quell’orizzonte lo avessimo già raggiunto? Jimenez fa capire che non può esistere tecnologia senza la parte umana. La prima vittima è la giustizia, gli innocenti soccombono sotto le imposizioni di un ordine prestabilito.

Si sentono gli echi di Orwell, si ammicca alla tragedia, si punta il dito contro chi usa il distintivo per il suo tornaconto e non per il bene comune. Niente di nuovo, non tutto funziona (come la parte finale), ma lo spirito prorompente di Jimenez cattura ancora una volta. Da notare la durata, in controtendenza con quelle fluviali dei film visti qui al Lido: “solo” 100 minuti. Non a caso uno dei più belli in Concorso è stato À pied d'œuvre di Valèrie Donzelli, lungo un’ora e mezza. Sarà un segno?