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Lo sappiamo: vent’anni dopo Buongiorno, notte, Marco Bellocchio ha esteso il tempo e lo spazio per esplorare la stessa vicenda, il sequestro di Aldo Moro. Parliamo ovviamente di Esterno notte, prima avventura seriale del regista italiano più giovane di sempre (l’anagrafe non c’entra, è una questione di spirito), che segna una tappa fondamentale in un percorso professionale e umano che ha pochi eguali nella storia del nostro cinema. Come ha notato Anton Giulio Mancino nel suo splendido La recita della storia, il caso Moro è un’ossessione nazionale alla cui luce nera non si può non leggere la carriera del maestro: il documentario La macchina cinema, Gli occhi, la bocca, Enrico IV, La visione del sabba, Il regista di matrimoni e poi Il traditore, Marx può aspettare, Rapito e, chissà, l’imminente Portobello sembrano sempre confrontarsi con il cadavere eccellente della Repubblica, con la sua prigionia nascosta in piena vista, con tutto quel repertorio pirandelliano (altro nume di Bellocchio) che tocca il grottesco e perfino il paranormale.
Ma è proprio Buongiorno, notte il film che rivela questo perpetuo (inconscio?) interrogarsi di Bellocchio di fronte a un fatto che è di per sé un viaggio al termine – appunto – della notte. Ed è forse per la sua immensa e sorprendente stratificazione, per il suo essere lì e ora, per la capacità di essere poetico prima che politico che Buongiorno, notte non solo ha retto alla prova del tempo, ma giova del passare del tempo, quasi fosse troppo in anticipo alla sua uscita.
Alla Mostra di Venezia del 2003, quando in pieno regno berlusconiano i commentatori davano Bellocchio in pole position per il Leone d’Oro (premio che non ha mai vinto, così come la Palma d’Oro a Cannes: entrambi i festival l’hanno risarcito con riconoscimenti alla carriera), la giuria presieduta da Mario Monicelli gli preferì Il ritorno di Andrej Zvjagincev, concedendo al regista e sceneggiatore solo un “premio per un contributo artistico individuale di particolare rilievo” (non lo ritirò). Monicelli – non esattamente un timido democristiano – disse che i giurati stranieri erano “tutti concordi sulla bellezza del cinema” ma soprattutto perplessi di fronte a “un gruppetto di terroristi insicuri, confusi, impauriti, dominati da un sequestrato che è quasi il burattinaio, una specie di glorificazione – forse oggi giusta – e sembra che a farlo morire non siano quei ragazzi spaventati, ma un establishment di destra e di sinistra”.


Il maestro non le mandava a dire e anche un intellettuale senza barriere come il compianto Goffredo Fofi non apprezzò il lavoro dell’antico sodale: “un film di conciliazione e di assoluzione delle principali parti in causa – scrisse sul Messaggero – e in esso tutto mi suona falso e idealizzato… un film privato e infantile, che purtroppo va visto in chiave antropologica, sociologica e politica come l’esempio di un’Italia oggi riconciliata dal denaro e dal conformismo dei comportamenti”.
Sono due critiche dure, sì, ma facciamoci due domande: è possibile capire il caso Moro senza essere italiani, senza tenere conto di quel che è accaduto prima, delle implicazioni politiche, dei caratteri nazionali? C’è davvero, in Buongiorno, notte, un’istanza riparatoria che trova nel venerato maestro Bellocchio un officiante disponibile al compromesso?
Esterno notte, in fondo, risponde anche alla prima, allargando il campo e cercando una tensione emotiva – che comunque c’era già in Buongiorno, notte, benché i tempi fossero poco maturi per sottolinearne la dimensione melodrammatica – perfino entrando nella psiche di uno dei protagonisti (l’episodio su Francesco Cossiga, tra i vertici del cinema di Bellocchio) o lavorando sui corpi che sopravvivono (quello su Eleonora Moro). Per quanto riguarda la seconda, Fofi permettendo, è difficile interpretare il gesto del regista come un’assoluzione collettiva, che tocca tutti in nome dell’unità nazionale.


Buongiorno, notte è il film che l’allora sessantatreenne Bellocchio non può non fare dopo L’ora di religione: dopo il sorriso della madre, ecco quello del padre (della patria, che arriva solo nel finale impossibile); dopo un altro matricidio dall’autore dei Pugni in tasca (la madre da santificare: “Bisogna inventare la vita di una santa che non c’è”), ecco il parricidio compiuto da una generazione convinta di cambiare il mondo e invece ottusamente al servizio di una trama oscura.
Si parte da Emily Dickinson (“Buongiorno, mezzanotte./ Il giorno si è stancato di me:/ come potevo io – di lui?/ Era bella la luce del sole./ Stavo bene sotto i suoi raggi”) per risvegliarsi nella mattina del 16 marzo 1978, in un appartamento piccoloborghese che è il teatro di un orrore sotto gli occhi di tutti. La potenza delle immagini è già in questa scelta: tutti, ormai, sappiamo che la prigione del popolo era nel cuore di Roma, ma pochi avevano osato mettere in evidenza quanto quella morte in diretta fosse letteralmente nella “nostra” stanza accanto, tra mamme che ci lasciano i figli per un’emergenza al volo e bambini che giocano al piano di sopra. È qualcosa di sconvolgente, non fosse altro che, complottisti o meno, l’indirizzo di quel covo non era ignoto.
Ma quell’appartamento è anche un luogo della mente: perciò Buongiorno, notte non può che essere il definitivo affrancamento dalla “militanza” psicanalitica, dove a sopravvivere sono le interpretazioni dei sogni (che qui ci sono, eccome, anzi: che sia tutto un incubo?) e non i cortocircuiti ideologici (che sono quelli che lasciano perplessi sul ciclo bellocchiano tra gli Ottanta e i Novanta).


Ed è, va da sé, una proiezione autobiografica: di una famiglia che oggi chiameremmo disfunzionale (i brigatisti a tavola che di fatto cedono ai modelli borghesi, tra i programmi con Raffaella Carrà e i segni della croce prima di pranzare), di un suicidio politico (la vitale nostalgia dei vecchi parenti che cantano Fischia il vento baciati del sole contro i cupi compagni brigatisti sempre costretti al buio), di un Pase che non fa mai i conti con il proprio inconscio collettivo.
La grandezza di Buongiorno, notte sta nel suo essere pubblico e privato, realistico nei principi e onirico negli esiti, collettivo e individuale. Perché l’epicentro è Chiara, la terrorista vivandiera ispirata ad Anna Laura Braghetti (autrice del memoir Il prigioniero, all’origine del film), monolitica nel suo celare un conflitto troppo pesante, sospesa tra il dovere dell’ideologia e l’istinto dell’accudimento, la consapevolezza di “venire da lontano” (il pensiero fisso dei martiri dello stalinismo e ai partigiani condannati a morte) e la devozione alla causa brigatista, un residuo di socialità per non dare nell’occhio – che le permette di capire come “la gente non capirebbe la morte di Moro” – e la fuga delegata al sogno e alla sceneggiatura scritta da un collega gentile, che ricorda il giovane Bellocchio (Paolo Briguglia), e che si intitola, toh, Buongiorno, notte.
Lo stesso Moro è già un ectoplasma, già votato al martirio e al ruolo di “fantasma della nazione”, meno “fisico” del ritratto mimetico che ne fece Gian Maria Volontè nel film di Giuseppe Ferrara. Chiuso in gabbia come l’uccellino curato da un brigatista, come quel Papa così ieratico nel dare priorità alla faccenda (getta tutti gli altri fogli dalla scrivania) e al contempo bloccato dagli eventi, come lo stesso Briguglia nell’ascensore sfregiato dai terroristi. È incredibile come Roberto Herlitzka abbia riconfigurato l’icona di Moro, somigliandogli vagamente eppure riuscendo a trasmettere struggente straniamento e ferma disperazione. Se Buongiorno, notte è il capolavoro che è, lo è anche per come questo attore monumentale ha incarnato l’alta fantasia bellocchiana, muovendosi tra le fughe di Schubert e le allucinazioni dei Pink Floyd fino a quell’indimenticabile finale che oggi ci sembra davvero un punto di svolta del cinema del regista più giovane di sempre.