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Bobò di Pippo Delbono
Bobò, nome d’arte di Vincenzo Canavacciuolo, è stato un attore sordomuto, analfabeta e microcefalo. Dopo aver trascorso i primi 46 anni della propria vita nel manicomio di Aversa, incontra per caso Pippo Delbono, regista teatrale e attore allora emergente nel panorama culturale italiano, che lo prende nella propria compagnia. Da allora, e fino alla morte sopraggiunta oltre gli ottant’anni nel 2015, Bobò ha passato il resto della propria vita recitando insieme a Delbono.
Nel film, il regista racconta che il dolore per la scomparsa dell’amico attore lo ha portato a una profonda depressione, tanto da non riuscire per anni a nominarlo o anche solo a guardare un suo ritratto. Dopo circa un decennio, Delbono riesce finalmente a elaborare il proprio lutto: sceglie il cinema, e in particolare il documentario, per realizzare un’opera che non si limita a essere una toccante elegia, un commiato in forma filmica al collega e fratello in arte Bobò, ma che è anche e soprattutto una riflessione sulla propria vita e carriera artistica, inestricabilmente intrecciate con quelle di Bobò.


Pippo Delbono
Delbono realizza il proprio film montando materiali visivi disparati: filmati d’archivio tratti dalle passate rappresentazioni teatrali si mescolano a found footage, cioè scene realizzate con piccole telecamere elettroniche a uso personale, insieme a riprese effettuate ex novo, appositamente per il film. Questo materiale viene sottoposto a un duplice processo di risemantizzazione: sia tramite la selezione e il successivo montaggio in una nuova configurazione narrativa, sia attraverso l’uso della voce del regista. Questi parla, esprime la propria riflessione mentre le immagini scorrono: le scene sono utilizzate tanto per raccontare le vite, quanto come spunto per riflettere su di esse e illuminarle di nuovi significati, scaturiti dall’incontro tra la maturità attuale e l’esperienza (la scena) originaria.
Inoltre, Delbono, di tanto in tanto, doppia alcune scene teatrali tratte dal proprio materiale d’archivio, come se cercasse di stabilire un dialogo fra il se stesso di oggi e quello del passato, oltre che di rivivere, anche solo per un momento fugace, il rapporto di amicizia fra lui e Bobò, tramite la sovrapposizione dell’immagine passata di quest’ultimo e la propria voce attuale. Questa è la parte più toccante del documentario: la prova tangibile dell’amore che ha unito i due e che, a dieci anni dalla morte dell’attore, continua a straziare Delbono. Qui, nonostante il dolore e la compassione, si manifesta la bellezza del genere documentario: la capacità di restituire e comunicare verità profondamente umane, come il lutto e l’amore di un’amicizia durata decenni, attraverso la performance relazionale fra il regista e l’attore. Una relazione inesistente e illusoria, fondata sul contatto tra la voce di Delbono e il significato immaginario che lui stesso conferisce alle immagini — la carica affettiva verso l’amico Bobò — ma che tuttavia si incarna in fotogrammi portatori di un profondo e radicato umanesimo.