Non è un caso che un film come Barrio Triste venga da Stillz, nome di punta della scena Latin urban per i video di artisti come Bad Bunny e Rosalia.

La militanza in quel mondo gli conferisce credenziali che non sono tanto le street creds dell’Hip hop (“vengo dalla strada, ergo so raccontarla”) quanto quelle del mitografo blasonato; colui che dei rapper sa assecondare le pose, vestire la gestualità debordante, agghindarla di regalia iperrealisti.

Il suo spaccato della Medellín anni ‘80 non potrebbe mai essere preso per cronaca. Ma nel mischiare audacemente cinema del reale e deformazioni fantastiche arriva forse più vicino di chiunque altro a individuare l’impulso creativo comune a tante sottoculture giovanili impoverite.

Perché il cinema gangster non ci era arrivato prima? Ci riferiamo al colpo di mano con cui si apre il film, quando i ragazzini di una baby gang si impossessano della videocamera con cui dei giornalisti stanno riprendendo il loro quartiere, volgendo la narrazione in point of view e raccontandosi (quasi) completamente in prima persona.

Chiamarla una provocazione vuota – del tipo di cui è spesso tacciato il coproduttore Harmony Korine – sarebbe mancare il punto della piccola rivoluzione di Stillz. Che ai “soliti” elementi gangsteristici (volontà di potenza, tormento edipico, sogno di una fuga fantastica dai bassifondi) aggiunge quello di un autoracconto per immagini esplicitato in tutta la sua capacità di sublimazione epica e tragica.

Se il gangster come narratore del proprio mito non è cosa nuova (Quei bravi ragazzi) e se la cultura hip hop aveva già ripagato il suo debito di iconografie e ispirazione col verbiloquio inarrestabile di tanti Ghetto e Banlieu movie (a partire ovviamente da L’odio) l’operazione di Stillz sorprende paradossalmente nella rinuncia alla parola in favore del puro tessuto visivo e musicale: nel suo farsi a partire dagli elementi del degrado, che senza smussarne l’orrore riveste di una patina inconfondibilmente mitologica.

Come un regista di videoclip il narratore-bambino, al cui punto di vista siamo incatenati, riprende e feticizza gli anelli d’oro, le cicatrici e le pistole dei compari. Con la forza immaginativa dell’adolescenza reimmagina a tempo di musica le geografie stranianti di un quartiere infernale, che filtrato dal suo sguardo si riveste di una poesia dolente dai tratti melodrammatici, surreali e perfino omerici (la lotta intorno al falò col cielo stellato in dissolvenza).

Con Barrio triste Stillz è forse il primo a trovare davvero un equivalente audiovisivo alla capacità cronachistica e auto-mitologica del rap. Nel farlo scopre la chiave per una partecipazione emotiva del tutto intuitiva e musicale, che in una seconda parte sfilacciata ma ambiziosa sfocia progressivamente in dinamiche da vero e proprio trip movie. Anche quando inciampa, si ferma e riparte un po’ troppe volte, resta un film con un suo flow. Un incubo ad occhi aperti che lotta senza posa per redimersi in Sogno.