Morad Mostafa arriva a Cannes con il passo audace di chi ha coltivato il proprio esordio con scrupolo e fierezza. Aisha can't fly away, in concorso a Un Certain Regard, è cinema consapevole, eppure febbrile. Una cifra stilistica che emerge potente, a tratti incontenibile, nutrita di immagini che sfiorano il sacro e si sporcano dell’inferno urbano del Cairo.

Al centro c'è Aisha, migrante somala che lavora come colf sognando di diventare infermiera. Una donna che si muove attraverso quartieri ostili, ripresa con una macchina da presa che ne pedina incessantemente i passi, in un dardenniano seguire mai insistito ma vivido, fluido, un vortice che avvolge senza soffocare. Come l'ostrich, lo struzzo africano che non vola mai oltre il metro d'altezza, Aisha è dentro la sua comunità senza mai appartenerle davvero. Presenza ambigua, presagio funesto, figura che Mostafa carica di simbolismi potenti ma rischiosi, oscillando tra poesia ieratica e la durezza di un quotidiano terribile.

La metamorfosi di Aisha, vittima che si fa carnefice, colf che diventa una Madonna vendicatrice, ribalta la narrazione convenzionale in un thriller che sconfina nell'horror, nella rivolta sociale, nella mise-en-abyme del vivere contemporaneo. Corpo deteriorato, occhi di ghiaccio, la fissità ieratica del suo volto sembra emergere direttamente da La Noire de… di Ousmane Sembène, ma riscritta per un tempo più feroce e disperato. Non più suicidio, ma violenza: il realismo sociale diventa inferno simbolico, il corpo femminile territorio di mutazioni mostruose e opache, teatro della violenza dell'esistenza.

Aisha can't fly away
Aisha can't fly away

Aisha can't fly away

 

Mostafa domina il quadro, forse con troppa consapevolezza. Regista formatosi tra la Cinéfondation e Next Step della Semaine de la Critique, abituato ai radar di Cannes, rischia talvolta di perdersi in un’estetica troppo calcolata. Sequenze premonitrici, derive splatter, guerriglie urbane sembrano rispondere più a un canone festivaliero che a una genuina necessità narrativa. Ma il cinema è anche questo: un lavoro di compromessi e ambizioni, e la presunta "inautenticità" diventa falso problema. Piuttosto, è la forza pittorica e politica di questo film a colpire davvero: il silenzio denso, i primi piani fissi che minacciano di spezzarsi, un’espressione impassibile che genera tensione palpabile.

Tra accenni di Kechiche e micro-punte di horror esistenziale, Mostafa realizza un’opera dove l’economia dei mezzi è pari solo alla ricchezza del soggetto. L’immagine mancante di Aisha, eroina esiliata e umiliata, è ricostruita dall’ostinazione di un cinema che si fa esperienza fisica, ipnotica, disturbante. Una discesa agli inferi che riflette il declino della società egiziana post-rivoluzionaria, una denuncia implicita ma feroce dell’era di Al-Sisi.

Nel suo epilogo sospeso, Aisha can't fly away lascia allo spettatore l'immagine di una donna che resiste, enigmatica e indomabile, sotto il peso di un cielo basso e minaccioso. Un'immagine incisa nella carne del film, che continua a pulsare, a interrogare, a bruciare lentamente dentro di noi.