Ci sono film che sembrano nascere dall’urgenza di uno sguardo, e altri che sembrano costruiti come dispositivi concettuali, dove l’idea precede e spesso soffoca l’immagine. Agon, esordio nel lungometraggio di Giulio Bertelli, architetto e velista, appartiene dichiaratamente a questa seconda categoria. Ambientato in una sorta di Olimpiade fittizia, i Giochi di Ludoj 2024, senza pubblico e immersa in atmosfere vagamente distopiche, il film segue tre atlete – una tiratrice, una schermitrice e una judoka – oscillando tra documentario, video-saggio e opera performativa.

Le premesse sono affascinanti: indagare la contraddizione di discipline nate come preparazione alla guerra e trasformate, secoli dopo, in sport regolati e spettacolarizzati. Bertelli intreccia a questo tema figure storiche femminili (Giovanna d’Arco, Cleopatra, Nadezhda Durova) nel tentativo di collocare le tre protagoniste dentro un immaginario epico. Ma a prevalere è una costruzione asettica, iper-stilizzata, che fatica a trovare una direzione narrativa e lascia più di una volta lo spettatore sospeso nella sensazione di assistere a un esercizio di stile.

Il film cerca costantemente un unisono tra il respiro umano e quello delle macchine, avvicinando corpi e tecnologie secondo un procedimento che ricorda a tratti il cinema di D’Anolfi e Parenti. Qui però le ambizioni di un’estetica ed etica post-umana non vengono pienamente rispettate: l’osmosi promessa resta incompiuta, e le immagini, per quanto suggestive, scivolano verso una freddezza programmatica.

Ci sono d’altra parte momenti in cui il film sembra respirare davvero: quando affiora la dimensione documentaria, quando le atlete si allenano o parlano senza filtri. Lì, Agon si concede spiragli di autenticità e riesce a evocare le contraddizioni di chi porta sul corpo il peso della prestazione e della disciplina. Ma a spegnere questa forza interviene presto la costruzione drammaturgica, con sequenze che scivolano in un compiacimento disturbante (la judoka davanti al fast food, la tiratrice immersa in un immaginario hentai) e finiscono per spostare l’attenzione dal corpo atletico al corpo spettacolare, ridotto a oggetto di sguardo.

La cura formale è indubbia – la fotografia di Mauro Chiarello, le scenografie di Ludovica Ferrario, la supervisione musicale di Randall Poster parlano di un apparato produttivo solido e ambizioso – ma non basta a colmare l’assenza di un nucleo tematico coerente. Lo spettatore, dopo un’ora, si ritrova a chiedersi cosa davvero il film voglia dire: non è un film sullo sport, né sulle donne nello sport, né sull’agonismo evocato dal titolo. È piuttosto un’opera che colleziona immagini e suggestioni, ma fatica a trasformarle in pensiero.

In controluce, resta la sensazione di un progetto velleitario, sedotto più dall’idea di “reinventare” lo sport come dispositivo artistico che dalla necessità di raccontarlo. Agon affascina a tratti, soprattutto quando lascia spazio al documentario, ma smarrisce la sua forza nel momento in cui cerca di sovrapporre concetti, stili e simboli. Agonismo, agone, agonia: quello che rimane è un esercizio formale che tocca la superficie dei corpi senza mai affondare davvero nella loro verità.