“Tendo a scrivere più di quanto serva”, rivela il premio Oscar Paolo Sorrentino, creatore e regista di The New Pope. “Quando lavoro a un film mi devo trattenere e, anche se non scrivo tanto, devo sforzarmi di tagliare. Al contrario, nella scrittura seriale devo sforzarmi di aggiungere. La mia misura ideale è un film di tre ore o una serie di dieci”.

Arriverà dal 10 gennaio in esclusiva su Sky Atlantic e Now TV, The New Pope, serie originale Sky prodotta da The Apartment - Wildside, parte di Fremantle. Sequel di The Young Pope, vede il ritorno di Jude Law, Silvio Orlando, Javier Camera, Cécile de France e Ludivine Sagnier. Entrano nel cast John Malkovich, Massimo Ghini, Maurizio Lombardi e le guest star Sharon Stone e Marilyn Manson.

Jude Law in The New Pope. Foto di Gianni Fiorito

Scritta da Sorrentino, Umberto Contarello e Stefano Bises, The New Pope mette al centro due papi. La prima stagione, lo ricordiamo, si chiudeva con Pio XIII (Law), colto da un malore durante un discorso in Piazza San Marco a Venezia. Mentre è sospeso tra la vita e la morte, il conclave nomina un nuovo pontefice: il segretario di Stato Voiello (Orlando) riesce a far eleggere Sir John Brannox (Malkovich), un sofisticato aristocratico inglese, assai meno intransigente del predecessore, che sceglie il nome di Giovanni Paolo III.

“Nella prima stagione – spiega Sorrentino – c’era un papa che predicava la chiusura. Volevamo raccontare il Vaticano dall’interno senza approfondire le relazioni con il mondo. Ora c’è un papa che apre le porte. E tutte quelle questioni che Pio XIII lasciava fuori, Giovanni Paolo III le porta dentro. Il suo atteggiamento ci ha messo nella condizione di dover ricorrere all’attualità”.

In che modo? “Per esempio approfondendo il ruolo delle donne. Vedremo le rivendicazioni delle suore, che chiedono agli alti prelati una maggiore parità in Vaticano. Mi sembra uno scenario verosimile, perché credo che sarà la prossima grande questione dentro la Chiesa dopo lo scandalo della pedofilia. Un processo irreversibile, così com’è nel nostro vivere comune. La Chiesa arriva sempre un po’ dopo rispetto a quel che accade fuori. Ho provato a raccontare un mondo molto chiuso e maschile aggrappandomi al femminile tutte le volte che ho potuto, nonostante gli spazi risicati che occupano in Vaticano”.

Sin dalla sigla, il sesso pare essere centrale. “Il sesso c’è dappertutto, sarebbe ipocrita pensare non ci sia anche lì, non solo associato alla cronaca nera”. Che idea si è fatto del Vaticano? “Ci sono stato mezza volta, il mio è un Vaticano inventato”.

Silvio Orlando, Cécile De France, Javier Camara, Maurizio Lombardi e Ramon Garcia in The New Pope. Foto di Gianni Fiorito

In The New Pope, Sorrentino ha l’audacia di rappresentare uno dei più grandi tabù del nostro tempo: un attentato in Vaticano. Lo mostra, tuttavia, scegliendo di concentrarsi su alcuni particolari. “Questo perché ci sono scene che non sono in grado di girare – ammette con beffarda modestia – e le esplosioni non le so fare. In realtà non mi sono posto molti problemi: nel racconto non ci dovrebbero essere tabù, si deve raccontare tutto. L’ho raccontato forse anche per esorcizzare l’evento e sperare che non succeda mai”.

Dal papa di Law, un divo che viveva nell’assenza, si passa a quello di Malkovich, un aristocratico sicuro di sé. “Il divismo di Pio XIII era dovuto a una strategia mediatica per incrementare il numero dei fedeli. Si alludeva vagamente alla sua santità, ma santità e divismo non sono aspetti così distanti, anche solo a livello terminologico c’è un’attinenza tra le due dimensioni, un legame con le stelle molto esplicito”.

“Ma il nuovo papa – rivela Sorrentino – incarna soprattutto un tema che mi commuove molto: è un uomo che rivendica per sé e per gli altri il diritto alla fragilità, al non farcela rispetto alle aspettative degli altri. È una cosa molto da cattolici, nel senso positivo del termine. La sua fragilità è quella di tutti”.

La suggestione dei due papi non può non dialogare con la realtà. “È una cosa che ha colpito l’immaginario e stimola l’inventiva. Vederne da un giorno all’altro due anziché uno è stato un po’ come vedere la pecora Dolly”. C’è bisogno di entrambi? Non lo so. C’è bisogno sicuramente di figure delle quali riconosciamo l’autorevolezza e che possano guidarci al diritto a essere fragili, vulnerabili, a disagio”.

John Malkovich sul set. Foto di Gianni Fiorito

“I due papi – continua nella riflessione – fanno a loro modo testimonianza di fede: essendo inevitabilmente anche dei politici, nel corso del racconto prendono consapevolezza del fatto che per il bene della Chiesa e dei fedeli si può prendere in considerazione la possibilità di togliersi di mezzo e fare un passo indietro. Sono ammirevoli nel rinunciare ai personalismi, alla voglia di esserci. Sanno fare quello che non sanno più fare i politici: il nostro bene è più importante di quello di coloro che si ostinano a rimanere anche quando il mondo dice loro di mettersi da parte”.

Come ha lavorato con Malkovich? “Avevo cominciato a scrivere il personaggio ma non ero contento. L’ho riscritto dopo aver conosciuto John. Un uomo affascinante, un parlatore molto importante. È ambiguo, rassicurante, ironico, leggero ma sa dare serietà alle cose,  d’un eleganza naturale, contraddittorio. Come nelle relazioni sentimentali, si diventa sensibili quando rimani spiazzato. Poi, sai, crede nei progetti che sceglie, ma se non vanno in porto non ne fa una tragedia, e per me questo aspetto è fondamentale. La mia fantasia sul personaggio del papa era più debole di ciò che lui effettivamente era”.