L'edizione 92 degli Academy Awards è già passata alla storia: "Parasite è il primo film #straniero ad aggiudicarsi il premio come miglior film". A parte che non è vero, visto che #stranieri lo erano anche The Artist di Hazanivicius e L'ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci (semmai, la locuzione corretta dovrebbe essere "è il primo film in lingua non inglese - visto che The Artist era muto - ad aggiudicarsi la statuetta più iconica"), quello che andrebbe capito è il criterio utilizzato a monte per la determinazione - non tanto dei riconoscimenti finali - quanto dell'inserimento (o meno) di una serie di titoli nelle varie categorie dei prestigiosi Awards.

Posto che la competizione tra opere di una medesima forma d'arte, per chi scrive, lascia sempre il tempo che trova (discorso, questo, che andrebbe traslato anche alle logiche degli innumerevoli festival sparsi per il mondo, più o meno prestigiosi che siano) e fatto salvo che, con buona probabilità, tutto il carrozzone della "stagione dei premi" resta comunque indispensabile per mantenere "vivo" l'interesse di una platea mondiale già sin troppo distaccata dal concetto di cinema come "forma d'arte" rispetto a quello di cinema come "forma d'intrattenimento",

l'exploit del film diretto dal sudcoreano Bong Joon-ho (guarda caso tornato ora al secondo posto degli incassi italiani, dopo la seconda, recente release del 6 febbraio) obbliga ad una riflessione sistemica sul senso, ma soprattutto sul controsenso degli Oscar, cerimonia tra le altre cose che quest’anno ha fatto registrare il picco d’ascolti più basso che si ricordi, con una media di 23.6 milioni di telespettatori e il 5.3 di rating (-20% e -30% rispetto al 2019), numeri impietosi se paragonati ai 43.7 milioni di telespettatori nel 2014, quando a condurre era Ellen DeGeneres.

Tralasciando le considerazioni sullo show (risvegliato – a parte Scorsese che dormiva – grazie alla performance di Eminem, che comunque ha cantato una sua hit di quasi 20 anni fa, Lose Yourself, perché all’epoca – nel 2003 – non si presentò a ritirare la statuetta), torniamo a ragionare sul trionfo di Parasite.

Candidato in sei categorie (film, regia, sceneggiatura originale, scenografia e miglior film internazionale), è il primo della storia ad aggiudicarsi congiuntamente l’Oscar per il miglior film, per la regia, per lo script e come miglior film internazionale. Non è quello – tra i film in lingua in non inglese – ad aver ottenuto il massimo numero di candidature (primato che spetta a Roma di Cuarón, con 10 e poi 3 vinti), non è l’unico ad aver ottenuto la candidatura congiunta come miglior film e miglior film internazionale, regia e script (oltre a Roma accadde anche per Z – L’orgia del potere di Costa-Gavras, La tigre e il dragone di Ang Lee, La vita è bella del nostro Benigni, Amour di Haneke), tutti titoli capaci di affermarsi come film “stranieri” (con Benigni anche migliore attore) ma mai come “miglior film”.

Roma di Alfonso Cuarón
Roma di Alfonso Cuarón
Roma di Alfonso Cuarón
Roma di Alfonso Cuarón

Un risultato epocale, dunque, è vero. Ma figlio di quale logica? Inutile star qui a discutere se quello di Bong Joon-ho fosse il “più bello” tra gli altri in corsa, magari era il più “sorprendente”?

Sì, forse sì. Ma si ritorna alla domanda di partenza: qual è la logica secondo cui Parasite (già Palma d’Oro a Cannes) era presente in molte altre categorie oltre a quella di film internazionale? Perché, ad esempio, lo stesso non è avvenuto per Dolor y Gloria di Almodóvar, “capace” di racimolare solamente un’altra nomination, quella per Banderas (già premiato a Cannes) tra i migliori attori?

Antonio Banderas con Pedro Almodóvar: Dolor y gloria

Sintetizzando, la domanda definitiva è un’altra: che senso ha mantenere la categoria – ghettizzante – dei film “internazionali” se poi da quella cinquina – cosa storicamente già avvenuta, come abbiamo visto – di tanto in tanto “vengono fuori” titoli che concorrono per molte altre categorie, compresa quella per miglior film tout court? Finendo poi per creare un cortocircuito francamente al limite del discutibile, come stavolta, con lo stesso titolo premiato come miglior film e come miglior film internazionale? Qual è il messaggio? Che Parasite sia “IL FILM PIÙ BELLO DEL PIANETA ANCHE PIÙ DEI NOSTRI MERAVIGLIOSI AMERICAN MOVIES”?

Il discrimine, l’abbiamo capito, è che per QUALSIASI film, di QUALSIASI nazionalità, NON è preclusa la possibilità di essere candidato in QUALSIASI categoria previa l’uscita theatrical americana nell’anno solare precedente, cosa effettivamente avvenuta tanto per Parasite (l’11 ottobre) quanto per Dolor y Gloria (il 4 ottobre). Mentre per la categoria dei film internazionali è il paese d’origine a proporre il titolo che poi finirà – o meno – nella cinquina relativa.

Poi però la storia racconta di altri cortocircuiti incredibili, si pensi al caso del Postino di Michael Radford, film “straniero” per antonomasia seppur diretto da regista anglofono, candidato nel ‘96 a miglior film, miglior regia, attore protagonista (Troisi), sceneggiatura originale e colonna sonora (Luis Bacalov, unica statuetta vinta), ma NON presente nella cinquina dei migliori film stranieri perché l’Italia quell’anno propose L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore, poi finito in nomination.

Il postino di Michael Radford

Che senso ha, allora, anche alla luce dell’ennesima edizione dove non sono mancati discorsi (quello di Joaquin Phoenix, su tutti) su disuguaglianza di genere, razzismo, diritti delle minoranze oppresse o diritti degli animali e prese di posizione sulle mancate nomination per registe donne (Greta Gerwig con Piccole donne, per dirne una) proseguire con la logica di “steccati” nominali se tanto, poi, alla fine, alla resa dei fatti, tanto le candidature quanto poi i premi assegnati finiscono per sovrastarne in maniera liquida la rigidità formale?

Ha ancora senso ghettizzare il “cinema-documentario” in una categoria a parte, considerando quanto ormai si sia assottigliato (se non scomparso del tutto) il confine tra cinema del reale e quello di finzione? E il cinema d’animazione? E perché, allora, non aprire anche alla realtà virtuale, cosa che ad esempio già da qualche anno ha fatto la Mostra di Venezia?

Come già avvenuto con l’avvento dei grandi player in streaming (Netflix, Amazon e via dicendo), questione che ha costretto giocoforza una riflessione sistemica che però ancora non sembra prescindere dalla centralità della sala, occorre forse un ripensamento generale delle logiche con cui nominare, o meno, un film agli Oscar. Nel giro di un anno Netflix ha trionfato con Roma per subire poi, l'altroieri, l'umiliazione delle 0 statuette su 10 nomination per The Irishman di Scorsese: anche qui, casualità?

Perché, ad esempio, il vincitore del Festival di Berlino 2019, Synonyms dell’israeliano Nadav Lapid (uscito negli States ad agosto), non ha ottenuto alcuna nomination?

Synonymes di Nadav Lapid

Possibile che in tutto il 2019 gli unici due film internazionali (“non in lingua inglese”, meglio) usciti negli USA meritevoli di “attenzione Oscar” siano stati solamente Parasite e Dolor y gloria?

E qui il discorso si complica ulteriormente, perché a ben vedere non sono poi tantissimi i film in lingua straniera che sono riusciti a trovare una distribuzione (financo limitata) sul suolo americano.

E allora tutto torna al solito argomento: il premio Oscar è un riconoscimento artistico o industriale?

Possibile che dietro a una scelta apparentemente di rottura (quella di consacrare in maniera così netta Parasite) e fermo restando che stiamo comunque parlando di un film ben più che notevole, si nasconda invece una logica politico-industriale atta a stabilire un definitivo patto di ferro con la cinematografia orientale tale da aprire scenari economici ancor più fruttiferi?

È tutto possibile. Anche provare a rendere più trasversale e meno ancorata a retaggi “linguistici”, di “genere” (inteso come limitatio in cui circoscrivere un film) la scelta con cui etichettare un’opera d’arte. Quello che ci si augura, insomma, dopo l’unicum rappresentato da Parasite. L'inizio di una nuova (fi)era?