C’è qualcosa di non contemporaneo in Werner Herzog. Non anacronistico. Non superato. Ma altro rispetto al nostro tempo. Un passo più in là. O più in profondità. Come quelle vene carsiche che non scorrono mai in superficie, ma tornano a galla dove nessuno si aspetta. Il cinema, per Herzog, è stato da sempre un cammino nel mistero — mistico, se quella parola ha ancora un senso non confessionale. Un cammino che non conosce sosta e non conosce conforto. Che attraversa lo splendore e l’orrore della vita, li tiene insieme, li mostra con occhi che nessuno ha mai avuto prima, o almeno così sembrano. Venezia gli assegna il Leone d’Oro alla carriera, e con esso riconosce, meglio tardi che mai, che c’è stata un’opera capace di sfidare il mondo senza alzare la voce. E senza chiedere nulla in cambio.

Un altro tempo, un altro passo

Werner Herzog nasce a Monaco nel 1942, ma cresce in un villaggio bavarese senza elettricità. Fa la sua prima telefonata a diciassette anni. Gira il primo film a diciannove, Herakles, e poi non si ferma più.

Klaus Kinski in Aguirre, furore di Dio, @Webphoto
Klaus Kinski in Aguirre, furore di Dio, @Webphoto

Klaus Kinski in Aguirre, furore di Dio, @Webphoto

Scrive, cammina, dirige opere liriche, attraversa giungle, gira nei deserti, scende nelle caverne paleolitiche, sopravvive a proiettili, incidenti, follie altrui. Non viene mai assimilato. Nemmeno quando viene invitato al banchetto del cinema tedesco degli anni Settanta — Wenders, Fassbinder, Schlöndorff — Herzog resta un viandante. Un corpo estraneo. Cammina accanto, cammina altrove.

Lo spiritualismo inconfessato

“A volte mi sento toccato dalla grazia di Dio — anche se non credo in Dio.”
È una frase chiave, perché svela — quasi suo malgrado — l’anima segreta del cinema herzoghiano: non ateo, ma apofatico. Mistico. Lontano da ogni religione istituita, ma visceralmente connesso con qualcosa che eccede l’uomo. La grazia, per Herzog, è ferita. È presenza che brucia. È visione che scuote.

Cave of Forgotten Dreams (2010), @Webphoto
Cave of Forgotten Dreams (2010), @Webphoto

Cave of Forgotten Dreams (2010), @Webphoto

In Cave of Forgotten Dreams entra nella caverna Chauvet e filma le prime immagini della specie umana come se fossero ancora vive, ancora pulsanti. In Pilgrimage segue folle in cammino verso Guadalupe e Kalachakra, senza una parola, solo con lo sguardo. In Of Walking in Ice percorre a piedi Monaco-Parigi in pieno inverno per “tenere in vita” Lotte Eisner. È un voto, un atto religioso, anche se lui si guarda bene dal dirlo.

Questa dimensione spirituale è sempre sfiorata, mai dichiarata. Mai istituzionalizzata. È lo spiritualismo tragico di un mondo in cui Dio è assente, ma il sacro continua a bussare. Non nelle chiese, ma nel gelo, nella fame, nella giungla, nel volto del folle, nell’animale ferito, nei corpi che ballano in Stroszek prima di scomparire.

Radici romantiche

Questa tensione al sacro non può prescindere dal Romanticismo tedesco, che Herzog incarna come nessun altro nel secondo Novecento.

Il sublime — che sia paesaggio, abisso, destino — è la sua materia. I suoi film sono visioni romantiche, ma spogliate dalla melodia: Aguirre, furore di Dio non è meno tragico di Il viandante sul mare di nebbia, ma è più furioso, più animalesco. Fitzcarraldo è Prometeo in Amazzonia. Kaspar Hauser è il puer eternus caduto sulla terra sbagliata.

Cobra verde (1987) - @Webphoto
Cobra verde (1987) - @Webphoto
COBRA03

Il Romanticismo di Herzog non è quello delle immagini belle. È quello della solitudine cosmica. Della lotta senza esito. Della grazia che lacera. “Tourism is sin, and travel on foot virtue”, ha scritto nel suo Manifesto del Minnesota. Il passo lento. L’attrito. L’esperienza. Contro il mondo digitale, contro il tempo veloce, contro l’ironia di chi non crede più in nulla.

La natura come Altro

Ma più di tutto, a essere al centro della sua opera è la natura. Non quella spettacolare. Non quella utile. E nemmeno quella “salvifica” delle retoriche ecologiste. La natura, per Herzog, è l’Altro. È ciò che ci guarda senza riconoscerci. È l’insondabile, l’incomprensibile, l’indifferente.

Timothy Treadwell,in Grizzly Man, @Webphoto
Timothy Treadwell,in Grizzly Man, @Webphoto

Timothy Treadwell,in Grizzly Man, @Webphoto  

«Vedo solo la travolgente indifferenza della natura», dice in Grizzly Man. E ancora, in Burden of Dreams: «Gli alberi sono nella miseria. Urlano nel dolore.»
Natura come campo di battaglia. Non morale. Non redentrice. Ma vera. Con una verità che ci respinge ogni volta che proviamo a dominarla. E che tuttavia ci chiama, ci seduce, ci costringe a tornare.

I folli, i visionari, gli esclusi

Indomiti anche i suoi personaggi. Sono visionari. Sono folli. Sono santi senza chiesa. Sono uomini e donne che non riescono — o non vogliono — adattarsi alla società del conformismo e delle ricompense, oggi diremmo degli algoritmi e delle gratificazioni social. Aguirre sogna un regno impossibile. Fitzcarraldo trascina una nave su per la montagna per ascoltare Caruso. Timothy Treadwell vuole vivere con gli orsi, fino a morirne. Dieter Dengler vuole volare e finisce abbattuto nella giungla.

Fitzcarraldo (1982) - @Webphoto
Fitzcarraldo (1982) - @Webphoto

Fitzcarraldo (1982) - @Webphoto

Questi personaggi non ci parlano di successo. Ci parlano di senso. Di limite. Di desiderio che brucia e non si spegne. Sono figure che la contemporaneità, con la sua ottusità comunicativa e i suoi protocolli morali, non saprebbe né riconoscere né salvare. Eppure ci parlano — più di ogni altro — di noi. Di ciò che abbiamo perduto. Di ciò che potremmo ancora recuperare, al fondo del nostro sacro mistero.

Una carriera che ha avuto meno di quanto ha dato

Herzog ha avuto meno di quanto meritasse. In termini di premi, di riconoscimenti, di attenzione mediatica. È rimasto sempre un po’ fuori. E un po’ più in alto. È stato più letto che osannato, più studiato che celebrato. I suoi film — Aguirre, Fitzcarraldo, Kaspar Hauser, Grizzly Man, Encounters at the End of the World, Cave of Forgotten Dreams — hanno fatto scuola senza mai diventare moda.

Il Leone d’Oro a Venezia 82 è più che meritato. Forse tardivo, ma giusto. Perché premia un’opera che ha tenuto alta la posta, che ha chiesto al cinema di essere qualcosa di più: non cronaca, ma epifania. Non specchio, ma abisso. Non intrattenimento, ma visione.

Herzog in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin, @Webphoto
Herzog in Nomad - In cammino con Bruce Chatwin, @Webphoto

In un’epoca che premia la velocità, Herzog ha insegnato la lentezza. In un mondo che adora l’accesso, ha scelto l’attrito. In un tempo che premia la superficialità, ha scavato. Sempre. Come un rabdomante che cerca l’acqua nel deserto. Non l’ha sempre trovata. Ma ci ha lasciato le mappe.
E forse — forse — ora tocca a noi leggerle.

“Esistono strati più profondi di verità. Una verità estatica. È misteriosa e irriducibile. Ma c'è. E si può filmare.”
Werner Herzog