Come si parla di musica al cinema? Male, spesso malissimo. E ciò per due motivi principali. Il primo è connaturato a una – errata perché letteraria – convinzione sul cinema, che esso sia cioè un dispositivo narrativo, che debba raccontare una storia. Ma la musica è senza storia, è piuttosto un assoluto che l’attraversa, e allora si cerca di costruire una vicenda, per esempio attorno a un musicista (già sarebbe miracoloso descriverla attorno alla musica… Può anche darsi che esista un film sullo sviluppo del sistema temperato o sulla nascita della dodecafonia – non su Schönberg: sulla do-de-ca-fo-ni-a).

Il problema è lo stesso, mutatis mutandis, dei film “filosofici”: più facile girare su Giordano Bruno – dal pensiero complesso ma dalla storia personale avvincente – che su Spinoza, dalla vita più piatta (e però così di Bruno continueremo a sapere del rogo, non del suo concetto di infinito). Così vengono fuori lavori anche apprezzabili ma nei quali la musica sembra un accessorio, dall’Amadeus di Forman, imperniato su un conflitto poco onestamente alterato (eccola la storia per forza), ai più recenti sui Queen o su Elton John, che alla fine convincono nei minuti in formato musical.

L’altra ragione, che corrobora la precedente, anzi forse la fonda, è il sostanziale e massificato analfabetismo musicale, e del pubblico e dei cineasti, che non consente di esprimersi tecnicamente e in termini propriamente musicali né attraverso le parole né attraverso le immagini (se pensiamo a quante regie televisive di concerti si concentrano sui momenti e sugli strumenti “sbagliati”…). Forse i consulenti costano. Sicché quando è apparso Ennio di Tornatore chiunque amasse e conoscesse la musica non ha potuto che esclamare: «finalmente!».

Certo, è un documentario; certo tratteggia (anche) un uomo, un artista; certo, questo artista si racconta in prima persona. Però quanto è confortante sentirlo parlare, senza far seguire spiegazioni, di ricercare, di contrappunto, di corde vuote, ottave e accenti tonici. Ma quando mai… Il lessico musicale, bandito dai giornali, dalla tv, dal cinema, persino in radio ci si muove con cautela, sembra senza cittadinanza.

Fortunatamente la biografa di Morricone non è stata granché pruriginosa (niente scandali o stranezze eclatanti) ma esclusivamente dedicata alla musica (quindi non così diversa, se escludiamo i numerosi viaggi, da quella di Bach) e questo ha consentito di concentrarsi sulla sua arte, peraltro ribadendo tutti gli interrogativi che restano aperti: la convinzione del maestro Petrassi che la musica per il cinema fosse un affare «antiartistico», e quindi una colpa, tormentava l’allievo come un tarlo. Sarà così? Morricone è morto non del tutto liberato dall’enigma.

Per una volta (cosa rarissima nei film sulla musica di livello artistico come questo, che non siano cioè banali reportage) la musica c’è: si ascolta, si vede (le partiture inquadrate nel dettaglio, le imitazioni vocali e gestuali dell’autore…) e se ne parla. Ne parla Morricone stesso, sì, probabilmente le stesse parole in bocca a un barboso musicologo sarebbero state tagliate, ma Tornatore, più o meno consapevolmente, nel rendere omaggio all’amico e al compositore, ha reso un grande servizio alla musica, a chi la conosce e vorrebbe che questo sapere passasse anche agli altri. Il regista e il musicista hanno fatto la loro parte, chissà se qualche spettatore si è andato a cercare una di quelle composizioni di Frescobaldi a più soggetti intrecciati tanto celebrate da Ennio in Ennio.