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Brunello Cucinelli
La cosa più interessante, nel diluvio di parole che inonda Brunello, il visionario garbato, la dice il meno visionario di tutti, Gianluca Vacchi, qui interpellato come investitore dell’azienda di Cucinelli: “Lui non parla mai di prodotto”. Sì, d’accordo, nel documentario firmato – griffe della moda per griffe del cinema – da Giuseppe Tornatore, l’avventura professionale dell’imprenditore parte dalla maglia plasmata sui corpi, dall’intuizione del cachemire colorato, dal lancio creativo sul mercato.
Ma Cucinelli – che il doc se l’è prodotto in prima persona, con la Masi – punta all’esempio di Ennio ed allontana lo spettro del fashion film: in due ore di (auto)ritratto, il prodotto è subalterno al pensiero, funzionale all’affabulazione, ridotto e al contempo sublimato a esito concreto di un percorso spirituale. Sembra che l’intento di Cucinelli, il volto umano del capitalismo, sia quello di farsi celebrare soprattutto come intellettuale senza cattedra (il bar di Perugia come la scuola di Atene), custode del creato (proprio nell’accezione religiosa), filosofo pratico (autodidatta, si batte per la bellezza), capo carismatico (effettivamente è un capitano d’industria illuminato), un matto che in realtà è naturalmente un visionario.


Brunello, il visionario garbato
Questo kolossal della docufiction – con un titolo che unisce la grandeur e understatement – alterna interventi di Cucinelli, rari materiali di repertorio e reenactment per ricostruire l’infanzia e l’adolescenza. E che ci ricordano quanto nel nostro cinema così modesto e timido si sente la mancanza di un maestro come Tornatore, un grande regista classico che si esalta nei grandi spazi che provocano emozioni paniche, nelle grandi narrazioni capaci di instaurare un corpo a corpo con il pubblico, nei baluginii improvvisi che sprigionano le grandi visioni (che daremmo per vedere un vero film su quel prete progressista che gioca a flipper: sono dieci anni che Tornatore non gira un film di finzione).
Alla perpetua ricerca dell’armonia perduta, della concordia con la natura e di un vago umanesimo, Cucinelli viaggia nel passato mettendosi accanto al sé bambino, sottolinea quanto ogni aspetto rievocato abbia determinato qualcosa di fondamentale, asseconda la benevolenza altrui con sospetto candore, agevola gli spiegoni come se le immagini non bastassero a se stesse.


Brunello Cucinelli
(Stefano Schirato)Nelle voci altrui, dai parenti agli amici fino a varia umanità da Oprah Winfrey (accreditata come “global media leader”) e il benedettino Cassian Folsom fino al fondatore di Linkedin Reid Hoffman e Mario Draghi (che lo volle per un sermone al G20 post-pandemico), Brunello è praticamente un santo laico che sa vedere nel cuore delle persone, sa leggere gli occhi degli altri, si batte per la dignità degli esseri umani, ma anche un genio che riesce a ottenere favori grazie a un carisma fuori dal comune, vince a carte perché sa far di conto come nessuno, acquista orrendi capannoni industriali per raderli al suolo e piantare alberi.
Va da sé: nell’epoca in cui i divari sociali ed economici sono sempre più inaccettabili, meglio chi cerca di trovare la quadra tra profitto e restituzione di tecnocapitalisti, oligarchi, padroni. Ma in Brunello – che di Ennio non ha il tormento né l’estasi – la vanità s’attaglia all’agiografia e l’autorevolezza oracolare è a prova di bignami.

