Tanto tuonò che piovve. Dopo mesi di campagna stampa ad alzo zero tax credit = sprechi, ispezioni, polemiche politiche e un clima di opinione non certo amichevole con il cinema italiano, la stretta è arrivata e nemmeno troppo inattesa: nella bozza della Legge di Bilancio, il Fondo Cinema e Audiovisivo scende di –190 mln nel 2026 e –240 mln dal 2027; il tetto al tax credit viene di fatto “incapsulato” nel Fondo (non più illimitato), con un plafond che si preannuncia attorno ai 500 mln. Apriti cielo. Produttori, distributori, associazioni di categoria si stringono attorno al Sottosegretario alla Cultura con delega al Cinema Lucia Borgonzoni, perché si faccia sentire. Non è un mistero che dietro la scure del MiC si stia consumando una faida politica interna al Ministero, con Giuli che spinge a tagliare il tax credit e la Borgonzoni che si appella al governo perché salvi il cinema italiano.

Dal film fantasma al tetto annuale

Riavvolgiamo il nastro. L’anno tormentato del cinema italiano non inizia certo con le anticipazioni sulla prossima Legge di Bilancio. C’è un caso che ha fatto da detonatore: Francis Kaufman, l’indagato per duplice omicidio a Villa Pamphili (avrebbe ucciso la compagna e la figlia di un anno). Kaufman avrebbe ottenuto circa 863 mila euro di tax credit per un film mai realizzato, Stelle della notte. Segue indagine con consegna degli atti del Ministero ai magistrati; nel frattempo, il direttore generale Cinema Nicola Borrelli si dimette. La notizia rimbalza sulle agenzie e sui media internazionali, oltre che sulla stampa italiana, trasformando uno strumento fiscale in scandalo nazionale.

Il Ministero, in aula e a mezzo stampa, promette “mai più film fantasma”: più controlli, ispezioni dedicate (si è parlato di 200 opere verificate per il quadriennio 2020–2024), protocolli con la Guardia di Finanza. Questo messaggio - sacrosanto sul piano dei controlli - ha però preparato il terreno politico per la scelta successiva: mettere un tetto annuale alle risorse del tax credit nella Legge di Bilancio.

Una biblioteca con posti limitati: spiegare il nuovo meccanismo

Fino a ieri il tax credit per il cinema funzionava così: se il tuo film rispettava i requisiti (culturali, produttivi, di spesa in Italia) il credito d’imposta ti spettava. Non era un “bancomat infinito”, ma la logica era di “domanda aperta”: presentavi domanda, superavi i controlli, il credito arrivava e potevi scontarlo in banca per pagare troupe, attori, post-produzione. Risultato: i piani di lavorazione si facevano su 12–18 mesi con una ragionevole certezza finanziaria.

Con la manovra in arrivo, la musica cambia: il tax credit viene messo dentro un tetto annuale fisso (un plafond unico dentro il Fondo Cinema). Tradotto: ogni anno ci sono X milioni per tutti i crediti; quando X finisce, stop: le pratiche vanno in coda o slittano all’anno dopo. In mezzo, l’amministrazione deve fare riparti per linee (produzione nazionale, attrazione estera, distribuzione, sale) e decidere priorità e finestre temporali. È qui che nascono gli “stop&go”: se entri tardi nell’anno o nella sessione, rischi di non trovare spazio.

Proviamo a spiegarlo con un esempio. Pensate al tax credit come a una biblioteca con un numero limitato di posti a sedere per anno. Prima, se foste arrivati con la tessera valida, avreste trovato quasi sempre posto (magari aspettavi qualche giorno, ma il posto c’era). Domani, invece, i posti sono contati: se arrivate quando la sala è piena, tornate domani o il mese prossimo.

Quando i grandi assorbono il serbatoio

Se questo sistema fosse stato già in funzione, sarebbe cambiato qualcosa per i film italiani di maggiore successo degli ultimi anni? C’è ancora domani di Paola Cortellesi, pur bocciato sui contributi selettivi, ha beneficiato del tax credit (circa 3,5 milioni di euro, secondo ricostruzioni giornalistiche basate su fonti ministeriali). Con un cap annuale, un titolo come questo, approvato a fine anno (quando spesso escono lunghi elenchi di decreti) avrebbe rischiato di scivolare all’anno successivo, con effetti sul cash-flow e, potenzialmente, sulla calendarizzazione dell’uscita. Ma la questione va vista anche in modo indiretto. Parthenope di Paolo Sorrentino ha beneficiato, secondo analisi di settore, di oltre 11 milioni di tax credit produzione. In un sistema a tetto fisso, opere di alto costo assorbono più “ossigeno” del plafond e spingono fuori - o in coda -i progetti medio-piccoli se il riparto non è calibrato per fasce. (Non è un giudizio di merito sul film: è pura meccanica di bilancio).

Ancora, opere come Io capitano di Matteo Garrone e altri titoli di prima fascia hanno presentato richiesta di tax credit presso la Direzione Cinema. In uno scenario a sessioni e cap, progetti che oggi passano in modo regolare rischiano, domani, di inseguire finestre e di pagare di più il denaro perché le banche prezzano l’incertezza del tetto.

Nota importante: questi esempi servono a mostrare l’effetto meccanico del cap, non a dire che quei film “non si farebbero più”. Il punto è quando e a che costo arriverebbe il credito, e chi resterebbe fuori a fine anno.

In pratica, sono tre le conseguenze più evidenti del nuovo meccanismo: 1) più attese, più costi: se il plafond finisce a luglio, i film in rampa ad agosto si fermano o vanno avanti al buio sperando nel plafond dell’anno dopo. Intanto, interessi e penali crescono. 2) Click-day e corse: le produzioni si accalcano sulle finestre utili (le “sessioni”). Chi ha più struttura e cassa prenota prima; gli indipendenti rincorrono. 3) Selezione avversa: senza correttivi, il cap tende a favorire chi può autofinanziarsi nell’attesa. Gli altri rischiano di saltare una stagione.

Alcune proposte di correttivo

Per non fare danni servirebbero dei correttivi minimi, come cap separati per produzione nazionale, attrazione estera, distribuzione/sale, in modo da evitare la cannibalizzazione fra linee. Finestre trimestrali con quote minime garantite e, se si vuole davvero evitare che il nuovo tetto di spesa diventi un imbuto, regole semplici e trasparenti. Per esempio, stabilire un ordine di arrivo chiaro e pubblico delle domande: chi presenta per primo una richiesta completa entra in graduatoria, e la graduatoria è visibile a tutti, così non ci sono “click-day”, corse all’alba o favoritismi nascosti.
In pratica, una coda ordinata: se le risorse dell’anno finiscono, i progetti successivi restano in lista e vengono finanziati per primi appena si apre l’anno successivo, senza dover ripresentare tutto da capo.

A questo si può affiancare un contatore pubblico online, sul sito della Direzione Generale Cinema, che mostri in tempo reale quanto del fondo è già stato impegnato e quanto resta disponibile. Sarebbe un piccolo gesto di trasparenza, ma di grande effetto: i produttori potrebbero sapere subito se il “serbatoio” del tax credit è quasi vuoto o se c’è ancora spazio per la loro domanda. Le banche, a loro volta, potrebbero valutarne l’affidabilità senza incertezze. E il pubblico, infine, vedrebbe concretamente come vengono usate le risorse.

Una delle preoccupazioni più forti del nuovo sistema riguarda i film che si trovano a metà del guado. Cosa succede se una produzione ha già iniziato le riprese, ha firmato contratti, ha assunto maestranze, e nel frattempo il fondo annuale si esaurisce?
Ecco perché servirebbe una clausola di salvaguardia: se il film ha già avviato le riprese e rispetta certi criteri di costo e rendicontazione, non può essere escluso dal credito per mancanza di spazio nel tetto di spesa. In questi casi, lo Stato si impegna a riconoscere comunque il beneficio, magari spostando il pagamento all’anno successivo, ma senza costringere il produttore a ricominciare da zero. È un modo per evitare il paradosso dei film che si fermano a metà o si indebitano solo perché sono arrivati “tardi” nell’anno.
Si tratta, in fondo, di una semplice regola di buon senso: se il lavoro è iniziato e i soldi sono stati spesi in Italia, il diritto al credito va garantito, anche se contabilizzato più avanti.

C’è poi un’altra questione di equilibrio: quella dei tetti per progetto. In un fondo con risorse limitate, è giusto che i film di grande budget - quelli che costano decine di milioni di euro - non si portino via da soli una fetta eccessiva del serbatoio.
Per questo serve un sistema di fasce di costo: ai film “XL” (grandi produzioni, spesso con capitali internazionali) si può riconoscere una percentuale minore di credito o imporre un limite massimo più basso; ai film “S” o “M”, cioè le produzioni medio-piccole, una percentuale un po’ più alta o un accesso garantito. In questo modo il meccanismo diventa più proporzionale e democratico: i grandi non schiacciano i piccoli, e le risorse pubbliche aiutano davvero a tenere viva la diversità del cinema italiano.

Sono misure tecniche, certo, ma il loro effetto è molto concreto: significano più continuità per chi lavora e più equità nella distribuzione dei fondi. Perché il rischio, con un tetto rigido e senza correttivi, è sempre lo stesso: pochi titoli colossali che si prendono tutto, e una lunga fila di film indipendenti che restano a guardare.

Ma c’è un pericolo maggiore fiutato dai produttori, e non è tanto il “meno soldi” (che pure c’è), ma più incertezza temporale. Se il settore non sa quando incassa il credito, non chiude i piani finanziari. E senza piani finanziari non si gira. Oppure si gira peggio, più tardi, e con maggiori costi per tutti. Tutte cose di cui il cinema italiano non avrebbe bisogno.