“Lei mi somiglia”, ma lei chi? Napoli o Parthenope, la sirena fatta donna, e rimasta mare, per cui cantano Cocciante, Paoli e Sinatra? Paolo Sorrentino torna a Napoli dopo È stata la mano di Dio, e dopo quell’affondo privato c’è il compendio pubblico (e sottilmente, indefettibilmente biografico), con il lutto per passaggio di testimone: là morivano i (suoi) genitori, qui un fratello, che fatalmente “già sapeva tutto”.

Difficile essere Sorrentino perché si può evitare di ripetersi ma non di essere, e la ripartenza dal memoir, dal dato sensibile e vieppiù intimo, non è, come la fessa per cui continua a stare in fissa, per le criature.

Sicché il cinquantenne Sorrentino, in Concorso a Cannes 77, calmiera la bravura, che contiene il rischio dell’abilità e dell’abilismo, e si lega, come Ulisse, all’albero maestro di un film che è grande e Dio, che è bellezza e mano: sì, memore del corpus cinematografico che lo annovera, e memore del corpus antropologico della città che lo alimenta.

"Sono stata triste e frivola, determinata e svogliata, come Napoli", e quindi la donna in più, e quindi le conseguenze dell'amore, e quindi youth e - l'originaria indicazione fu spuria, Napul'è - this must be the place.

Se “l’antropologia è vedere”, se Céline ancora il nume in esergo: “Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”, il viaggio di Parthenope dal Cinquanta fin qui, da Napoli a Trento e ritorno, nella certezza che sia “impossibile essere felici nel posto più bello del mondo”, che non è Trento, nell’aporia che “la verità è indicibile” – ma ineffabile? – come può essere raccontato, se non nel principio di piacere socratico dell’”Io non so niente, ma mi piace tutto?”.

Aveva dunque Sorrentino desiderio, necessità, urgenza persino di trovare un corpo senziente, un sorriso disarmante sotto gli occhi di cerbiatto curioso e financo indagatore: “Era già tutto previsto”, per cantarla con Cocciante, e la previsione era Celeste Dalla Porta (non ricorda forse la giovanissima Gigliola Cinquetti?), che è Parthenope capace di tutto, ma non buona a nulla.

Una prova di faglia, la sua, al cospetto dei Faraglioni, nel Segno di Venere chez Risi e di Cerasella di Matarazzo, che muove e si calcifica nel lutto fraterno, laddove al termine della notte, in acque ferali anziché lustrali, sta la confusione “tra l’irrilevante e il decisivo”, che sono poi i termini entro cui senza soluzione di continuità si dibatte il cinema di Sorrentino.

Letterariamente c’è John Cheever, un commovente Gary Oldman, ma ancora più Dudù La Capria di Ferito a morte e Curzio Malaparte de La pelle, sicché bassi e degrado, meretricio e copule inter-camorristiche, agenti sfigurate e dive dal Nord, la scorciatoia d’attrice e il vizio di forma, il professore, Marotta (grande Silvio Orlando), a cui con Billy Wilder “basta essere avanti di una sola lezione rispetto agli studenti”, e l’università dove ça va sans dire “si viene già pisciati e cacati”.

Parthenope va, sirena e ancor più Odissea (e Odisseo è ineluttabilmente Sorrentino), falca il silenzio che “nei belli è un mistero, nei brutti un fallimento”, dribbla gli amori, quelli “di gioventù che non sono serviti a niente”, e l’amore, che “non è gestibile, da Gesù ai cantanti provano tutti a dirci come venirne a capo”, e si trova a rassomigliarsi, donna e città, a farsi miracolo della scena – Il Neorealismo cui Sorrentino si è sempre sottratto – e miracolo dell’osceno, con le lusinghe di Achille Lauro e la concupiscenza del vescovo Tesorone (Peppe Lanzetta, demoniaco e icastico), che frugandola nelle parti intime otterrà il miracolo di San Gennaro mancato in chiesa.

Qui, e nel profondo, La Capria: “Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell'attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la sua situazione. L'aspetto ambiguo dell'umanità del napoletano con la sua antitesi di miseria e commedia, di vita e teatro. Le due Napoli, una la montatura e l'altra quella vera”.

Ma come sta Sorrentino?

Catalizzata e diretta l'epifania di Celeste Dalla Porta, merito ineludibile, s'ascrive una prima parte del film sapientemente e parcamente folgorante, girata dentro la modestia e l'empatia, poi si fa prendere dallo sconforto per il pubblico, cui ahinoi non nasconderà nulla, e per sé stesso, coatto a non ripetersi rimanendo sé stesso, sicché Tesorone, mestruo e masturbazione nel nome di Dio, sicché il figlio di Marotta, che è acqua, sale e omerico mostro marino ("E comunque Dio non ama il mare..."), sicché l'iperbole e il grottesco, e il disturbante che raccorcia il film.

"Chi è innamorato se ne accorge prima o poi", e il cinema continua a ricambiare doviziosamente Sorrentino, ma il ritorno al futuro di Parthenope così impastato di passato, così stato dell'arte (l'eccellenza tecnica, e tecnologica per il “mostro”, è sensibile eppure mai vanagloriosa nel film) e così metacinematografico, giocato tutto sul vedere/potere (si apre con “Hai gli occhi spenti”), ricorda come sia "difficilissimo vedere perché è l’ultima cosa che si impara quando inizia a mancare tutto il resto", ma ancora facile filmare perché è l'ultima cosa che si dimentica quando inizia a mancare tutto il resto.

Sì, anche Sorrentino è ferito a morte: “Possibile che tutto avviene come in un film, che tu lo vedi e pare che sta succedendo qualche cosa proprio in quel momento, e invece il film è stato girato in un ordine diverso, e tutto è fermo nel rotolo del tempo? Sì, è possibile, è possibile”.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 23 maggio 2024 sul 95° numero di Koyaanisqatsi, la newsletter di Federico Pontiggia per Cinematografo: è gratis, iscrivetevi qui