Racconti una vita che non è la tua, e per farlo, perché la narrazione sia nitida e marchi un segno nella sensibilità dello spettatore, quella vita che hai scelto di raccontare deve essere tentativo di risposta a domande che ti risuonino dentro, che siano per te, artista biografo, davvero urgenti, impellenti.

Vale per i film così come per i libri: se tra il biografo e la biografia manca una risonanza autentica, un quesito di partenza sufficientemente complesso e strutturato, se la scelta della vita da raccontare è stata fatta per motivi un po' casuali, opachi, di calcolo, lo si avverte subito: perché il risultato in termini narrativi non si staglia, non è per davvero visibile, e soprattutto non “vibra”.

Come sempre per ogni opera biografica (visiva o letteraria, comunque narrativa) quelle che vengono messe in circolo sono vibrazioni. Una volta di più, qui anche tutto va a convergere in una questione di assonanza profonda tra chi crea, e il contenuto del suo creare: un criterio che per le biografie vale doppio. Dove non scegli per ragioni vere (lucide o invece viscerali, comunque autentiche), dove non ti poni con la dovuta autenticità davanti all'oggetto artistico – una vita, un percorso biografico – il risultato ne risente in modo chiaro, palmare.

Perché ogni biografia è un'alchimia, un misterioso e miracoloso punto d'incontro tra l'esistenza di chi narra e quella di chi viene narrato. Un viaggio come un periplo, dal cui itinerario come narratore il biografo esce trasformato, maturato. Se Mario Martone ha deciso di cimentarsi con il racconto della vita di Massimo Troisi, è stato certo per l'avvicinarsi di una ricorrenza (i settanta anni che il grande attore avrebbe compiuto, una crudele anomalia cardiaca non ce lo avesse troppo presto portato via); ma anche per altre ragioni, più personali e singolari.

Mario Martone e Massimo Troisi - Foto Fabrizio Di Giulio
Mario Martone e Massimo Troisi - Foto Fabrizio Di Giulio

Mario Martone e Massimo Troisi (credits: Fabrizio Di Giulio)

Ricomporre le tessere del bellissimo “mosaico Troisi”, e farlo con la grazia e la sapienza che sono del documentario Laggiù qualcuno mi ama, da parte di Martone è un tributo ma anche altro, di più: un interrogarsi su di sé, una riflessione articolata nel segno della maturità creativa, appuntata e accordata sulle note della stupenda “sinfonia” Troisi, quell'armonia e grazia che nel Martone regista per più di un motivo risuonano in profondità.

A “Massimo” si rivolge come fosse un compagno di strada, ma anche una sorta di alter ego: qualcuno il cui percorso per tante ragioni si interseca con il proprio. Acquista così spessore la vita narrata, tridimensionalità, maggior scavo e chiaroscuro rispetto al mero binomio biografo / biografia. C'è la napoletanità, c'è l'avere trovato una strada artistica del tutto personale in stesso contesto di una Napoli vincolata a nobili ma invecchiati stereotipi. L'amore per la Nouvelle Vague e l'apertura di mettersi in discussione accogliendo nella scrittura cinematografica la collaborazione al femminile.

Questi temi, Martone li sviscera in Troisi e lo fa intanto pensando a sé stesso. Il risultato è una biografia di trascinante poesia, per quanto il biografo vorremmo si fondesse più ancora con la sua materia. Perché l'alchimia si compie del tutto quando da spettatore hai il senso di possedere entrambe le chiavi, di narratore e di narrato, e quando il primo a tal punto si è immerso nel secondo da trascolorare in lui, e lì scomparire.

Nello struggente documentario di Laura Poitras Tutta la bellezza e il dolore sulla fotografa Nan Goldin, più ancora l'alchimia si compie, dando luogo a un ritratto che è oro, oro lucido, che brilla, oro di una vita che ci entra nelle viscere e di cui abbiamo l'indubitabile percezione di avere colto tutti i chiaroscuri. Se accade, è per come la regista/biografa riesce a mimetizzare le sue proprie domande, celare un grado di immedesimazione potente quanto pudica, calibrare l'empatia sino a renderla un'unica fusione – un'unica visione.

Un racconto ricchissimo e completo anche perché stratificato – accanto alla vita intensa, dissipata e magmatica di Nan Goldin, lo strato successivo del suo impegno come attivista nella causa contro la famiglia Sackler, artefice e rea di un criminale meccanismo di assuefazione da oppioidi che ha mietuto miglia di vittime negli Stati Uniti e non solo, e quello ulteriore dell'ombra gettata dal dramma del suicidio della sorella. Da tale stratificazione narrativa, il miracolo alchemico della biografia ne esce intensificato.

Perché ogni vita narrata non ci riguarda e nello stesso tempo ci riguarda completamente, tanto quanto ha riguardato chi sappia narrarla offrendocela in dono. Quali pietre preziose sanno essere le biografie, quando anche del biografo capiamo e sappiamo attraverso la vita che ha scelto di raccontare.