Ragionare oggi in termini generici sul cinema italiano rischia di essere uno sforzo senza risultato. Peggio: ragionare oggi in termini generici sul cinema italiano renderebbe ogni pensiero monco, fragile, incrinato: una riflessione generica che rischierebbe di non avere centro, nucleo, anima. Negli ultimi anni, di cinema italiano si riflette molto senza riflettere a fondo: c’è un problema endemico, ci sono vitalità difficilmente uniformabili, c’è un fermento sotterraneo, c’è il rischio di uno stallo, artistico ma ancor più produttivo, di sistema.

Come si può abbracciare il nostro cinema cercando di scoperchiarne i limiti e allo stesso tempo assecondare le sue potenzialità? Come fare un tentativo di analisi – uno “stato delle cose” – senza semplificare le problematiche ma neanche soffocare i fermenti che – in maniera a volte imprevedibile – continuano a lievitare?

Il cinema italiano da sempre tende ad alternare forze “conservative” e forze “ribelli”, periodi di rottura e periodi di conferma, movimento e stasi. Dalle innovazioni del muto alla convenzione dei “telefoni bianchi”; dalla rivoluzione neorealista – presto normalizzata nel “neorealismo rosa” – alla commedia all’italiana, che ha saputo essere tutto e il contrario di tutto; dalle avanguardie degli anni Sessanta al cinema industriale di genere; dalla sperimentazione dei Settanta al cinema rassicurante – pecoreccio ma, in fondo, democristiano – di tanta commedia anni Ottanta e Novanta.

Si potrebbe proseguire, attraversando le crisi cicliche del rapporto tra sala e spettatori e i colpi d’ala di nuove generazioni di autori che, nonostante problemi industriali sempre più evidenti, continuano ad affacciarsi al nostro orizzonte.

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