Non so se avete notato che mi sono vestito da sacerdote, in linea con la circostanza. Il ragazzo del motoscafo mi ha dato del monsignore.”

Con una battuta, com’è nel suo stile, Pupi Avati trasformò il ritiro del Premio Bresson nel 2020 in una piccola scena di teatro umano. Ma dietro il garbo e l’istrionismo, si celava — come sempre nel suo cinema — una verità profonda: il sacro e il quotidiano possono convivere, l’ironia può essere sorella del dolore, e il cinema può essere liturgia laica della memoria.

Nel giorno in cui riceve il David alla carriera, Pupi Avati non è solo celebrato come uno dei grandi del nostro cinema. È riconosciuto come l’autore che, più di ogni altro, ha dato forma filmica alla nostalgia italiana, al paesaggio morale della provincia, alle inquietudini dell’anima.

C’è qualcosa in Avati che resiste al tempo, e non è solo la sua longevità artistica. È un’ostinazione metodica, un rigore sottile, nel voler raccontare ciò che sfugge: l’ombra ai margini del volto, l’eco di una voce assente, il dettaglio che incrina la superficie. Ricevere oggi il più alto tributo dell’Accademia, a oltre cinquant’anni da Balsamus, l’uomo di Satana (1968), significa riconoscere un autore che ha trasformato il cinema in una forma di persistenza. La sua filmografia, più che un corpus, è un paesaggio: morale, narrativo, affettivo. Fatto di nebbie padane, case storte, corpi estranei, silenzi che parlano.

La memoria come forma narrativa

Bolognese classe 1938, Avati ha sempre abitato il cinema come si abita un luogo d’origine. “Una città grande e lunga, soleggiata o piovosa nei giorni giusti”, scriveva in uno dei suoi romanzi, parlando di Bologna. Ma è una frase che vale per tutta la sua estetica: i luoghi non sono sfondo, ma soglia. L’Italia che racconta è sempre minore, laterale, eppure universale nel suo ritrarsi continuo. Una provincia che non si limita a essere contesto, ma diventa condizione dell’anima.

È fuorviante vedere in Avati solo il cantore delle memorie. Lo dimostra il fatto che a segnare la sua prima affermazione sia stato un film come La casa dalle finestre che ridono (1976): gotico rurale, culto resistente, oggetto alieno nel panorama nazionale dell’epoca. Un horror senza mostri, dove la paura sorge dal familiare, e l’incubo coincide con la normalità. Da lì in avanti, Avati ha frequentato il perturbante in forme diverse, mescolando realismo e allucinazione, infanzia e morte, misticismo e corruzione. Con Zeder (1983), ad esempio, realizza un’opera fredda e cerebrale, anticipatrice di un’ansia contemporanea: l’assenza di verità, l’instabilità della percezione.

L'orto americano - Foto Elen Rizzoni
L'orto americano - Foto Elen Rizzoni

L'orto americano - Foto Elen Rizzoni

Il gotico, dice oggi, non l’ha mai davvero abbandonato. “Dovremmo praticarlo di più, in Italia, credendoci maggiormente”. Lo ha ribadito anche a Venezia 81, dove ha presentato L’orto americano, film di chiusura della Mostra: storia ambientata nella Bologna della Liberazione, in bianco e nero, in cui un ragazzo ricoverato in un ospedale psichiatrico comunica con i defunti. “Quel ragazzo sono io”, ha detto, senza giri di parole. “Ogni sera parlo con i miei cari che non ci sono più”. Avati ha sempre lavorato sul crinale fra spiritualità e psiche. La sua idea di cinema è una forma di veglia. Un rituale narrativo, non un’industria.

Il bisogno di narrare la soglia tra vita e morte è al cuore anche di una delle sue opere più recenti e riuscite, Lei mi parla ancora (2021), adattamento del memoir di Giuseppe Sgarbi. Un film che parte da una storia d’amore e arriva a riflettere sul senso stesso del cinema: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, recita una frase di Pavese che ne potrebbe essere epigrafe.

In quel film, Avati prende la voce di un altro per dire di sé. Affida a Renato Pozzetto — in una delle sue prove più intense — il compito di dare corpo al lutto, ma anche alla resistenza dell’amore come forza che sopravvive al tempo. Il dialogo con i morti, già tematizzato come abitudine quotidiana del regista stesso, si fa qui dispositivo narrativo: il cinema come conversazione a distanza, ghost story delicata e commossa, nella quale anche la scrittura, affidata a un ghostwriter riluttante, diventa forma di sopravvivenza.

E tuttavia, non ha mai disdegnato il confronto con la macchina produttiva. Con la fondazione di AMA Film, poi di DueA, ha difeso con lucidità il proprio spazio creativo. E ha denunciato con chiarezza — a volte con durezza — il declino del cinema italiano. Da mesi chiede l’istituzione di un Ministero del Cinema, una riforma simbolica prima che strutturale. E avverte: “Senza modelli e senza narrazione, una nazione si svuota”.

Chi lo frequenta lo sa: Avati è un affabulatore, ma non è indulgente. I suoi aneddoti — Fellini, Pasolini, la scoperta di Mariangela Melato, il provino rifiutato a Grillo — sono frammenti di un autoritratto. Ma dietro la voce pacata si intravede un carattere spigoloso, selettivo, a volte refrattario. Non è un uomo conciliante. Sul set può essere esigente, talora intransigente. Ma anche questo ha contribuito a costruire un’estetica precisa, mai lasciata al caso. Una regia che non impone, ma osserva. I suoi film non spiegano: mostrano, sfiorano, lasciano sospesi.

Un autore fuori asse

Il vero tempo del cinema di Avati è l’imperfetto. Non solo come tempo verbale, ma come condizione esistenziale. I suoi personaggi non arrivano mai del tutto a destinazione. Sono figure in transito, tra ciò che ricordano e ciò che sperano. Una gita scolastica, Regalo di Natale, Il cuore altrove, Il papà di Giovanna sono solo alcune delle sue variazioni sul tema dell’attesa, dell’incompiuto, del non detto. È un cinema che predilige i margini: degli spazi, dei corpi, dei sentimenti.

Anche sul piano della fede, Avati resta estraneo alle semplificazioni. Cattolico dichiarato, sì. Ma non dogmatico. Il sacro, nei suoi film, si insinua come una possibilità, non come un fondamento. È spesso legato alla perdita, alla grazia come residuo. La religione non è mai rifugio, ma domanda. E in questo senso Il papà di Giovanna è forse la sua opera più cristiana: un film sul fallimento dell’amore, che diventa possibilità di redenzione attraverso l’accettazione dell’altro.

A chi gli chiede dove trovi ancora l’urgenza di fare film, ha risposto una volta di vivere sempre in quell’attesa che precede la cima, quando tutto è ancora possibile: "Esistono persone che non scollinano mai, per impegno e vocazione, e non conoscono dunque l’amarezza del disincanto”.

Pupi Avati non è mai arrivato davvero alla vetta. Ma è stato, e continua a essere, il custode del tempo sospeso. Quello dell’imperfetto. Della nostalgia. Della speranza.