Il solito, biondo ghiacciolo trasformato in un grande falò. Le solite perfezioni infernali. La solita compressione emotiva che schiuma in rabbia, provocazione, delitto. Il cinema del Grande Nord (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia e Islanda) conserva caratteristiche note, amate, polari. Ma aggiunge nuove suggestioni. E quote consistenti di pessimismo, calore creativo e qualità. Anche quando abbraccia il percorso di “genere”, conserva un’inconfondibile connotazione sperimentale, di esplorazione e approfondimento. Il mondo, raccontano i film, ha da tempo abolito il lieto fine: è un ascensore impazzito, un precipizio espressivo, ideologico, esistenziale che alla massima velocità sale e scende. Oscilla, cade e risale.

Lo dice l’uomo del momento, il capofila della new wave scandinava: il grande sabotatore Ruben Östlund, svedese, classe 1974, che con Play e The Square aveva messo a soqquadro le certezze dei ragazzi e l’universo dell’arte, simboli estremi del caos globale, e con la Palma d’Oro di Cannes 2022, Triangle of Sadness, ossia Il triangolo della tristezza, ci ha parlato di diseguaglianze e dislivelli sociali, convenienze, moralismi, lotta di classe, di uomini e donne alla ricerca di ruoli e identità. I modelli Carl e Yaya (Harris Dickinson e Charlbi Dean, morta alla fine di agosto per cause misteriose a soli 32 anni) litigano al ristorante su chi deve pagare il conto. 1) Chi ha fatto l’invito? 2) Chi guadagna di più? 3) L’uomo designato dalle convenzioni sociali? 4) O la donna in ragione della sua emancipazione? Poi la crociera ai Caraibi, i deliri del comandante Woody Harrelson e dell’oligarca filosofo “re dei fertilizzanti naturali”, il mal di mare, i mercanti d’armi, i pirati, la bomba, la barca che affonda, l’isola deserta dove i camerieri diventano leader e le élite si sbriciolano.

Triangle of Sadness di Ruben Ostlund © Plattform-Produktion
Triangle of Sadness di Ruben Ostlund © Plattform-Produktion
Triangle of Sadness di Ruben Ostlund © Plattform-Produktion

Il cinema del Grande Freddo corre e gli esempi sono molti. Che importa se l’islandese Baltasar Kormakur cede a un horror da savana come Beast? Nel danese Wild Man – Fuga dalla civiltà di Thomas Daneskov l’ordine delle cose (artistiche) viene ristabilito: un cacciatore all’opera nella foresta norvegese, inseguito dalla moglie e da un poliziotto, s’imbatte in un criminale ferito e con lui parte alla ricerca delle radici vichinghe ai confini del mondo.

Gestire le emozioni, ecco il punto. In As in Heaven, la regista Tea Lindeburg racconta l’emancipazione, alla fine del diciannovesimo secolo, della giovane figlia di un proprietario terriero danese, che si ribella a un futuro chiuso tra Bibbia e superstizione. La stessa visione che, in chiave sentimentale, propongono il molto lodato La persona peggiore del mondo del norvegese nato a Copenaghen Joachim Trier, commedia romantico-drammatica sullo spaesamento dei trentenni di Oslo, e in chiave horror due film proposti al Tertio Millennio Film Fest, patrocinato dalla Santa Sede in collaborazione con le altre comunità religiose presenti nel nostro Paese: il danese-olandese Speak No Evil di Christian Tafdrup, segnalato al Sundance Film Festival, e il norvegese The Innocents di Eskil Vogt, presentato nel Certain Regard di Cannes. Opere ansiogene, corde tesissime, con finali disperanti. Entrambi testimonianza di come la pianta del male cresce e si sviluppa in condizioni impensabili.

Nel primo, l’incontro in Toscana delle famiglie dello svedese Bjorn e dell’olandese Patrick si trasforma in un fine settimana da incubo nella casa dell’orrore, un prefabbricato di legno perso nel bosco. Nel secondo, un cinereo istituto per ragazzini problematici diventa la casa del demonio. L’umanità è un fantasma, il diavolo è tra noi e bisogna farci i conti. Se le speranze collettive vanno a picco, la qualità della proposta è sempre più alta. Ma quali sono i motivi del rinascimento in corso? Le opere arthouse che trattano argomenti come la condizione femminile, il rapporto tra uomo e ambiente, il conflitto generazionale godono di sovvenzioni e buoni budget.

Speak No Evil (credits: Plaion)
Speak No Evil (credits: Plaion)
Speak No Evil (credits: Plaion)

L’industria cinematografica deve la sua agilità alle leggi dello Stato che garantiscono i film d’autore, con una percentuale del 20% circa di intervento pubblico sulla produzione nazionale. Un’ottima stampella dopo lo choc pandemico. I Paesi disposti nell’area nord-occidentale d’Europa coprono una regione con 25 milioni di abitanti. Una comunità con un’elevata coscienza civile e profonde differenze culturali che non ha perso di vista i maestri del 900, dal danese Carl Theodor Dreyer allo svedese Ingmar Bergman, ai fratelli finlandesi Mika e Aki Kaurismaki.

La loro ricerca, legata spesso a matrici letterarie o teatrali, ha indagato questioni capitali dell’etica protestante, mentre la generazione dei registi degli Anni Sessanta (tra cui gli svedesi Bo Widerberg e Jan Troell e i norvegesi Anja Breien, Vibeke Lokkeberg, Martin Asphaug) ha puntato più sul realismo sociale. Oggi il tema capitale è la disfunzionalità relazionale, di cui fu espressione il Manifesto Dogma 95 di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, un ariete efficace contro le logiche ingessate del sistema. Ieri come oggi.