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Laura Samani
È la città di confine per eccellenza, Trieste. Sospesa tra l’ancien régime e l’underground, l’austerità austroungarica e una disinvoltura picaresca, il cielo e il mare, crocevia della storia europea e ferita forse mai rimarginata, “fabbricata di luce” a detta di Aldo Palazzeschi e con una “scontrosa grazia” per citare Umberto Saba. Deve molto agli expats come James Joyce sedotti da un fascino inclassificabile, ma anche – o soprattutto – a chi ci è nato e cresciuto. Come Laura Samani, classe 1989, che non solo contribuisce a consolidare lo statuto di Trieste come capitale culturale. Ma, sul piano personale, al secondo lungometraggio di finzione si conferma tra le massime autrici italiane.
Un anno di scuola, il film che ha scritto e diretto ispirandosi al racconto omonimo del concittadino Giani Stuparich, è stato uno dei titoli più amati all’ultima Mostra di Venezia, dove la giuria della sezione Orizzonti l’ha premiato per il miglior attore (l’esordiente Giacomo Covi). Qualcuno ha detto che, forse, sarebbe stato più coraggioso proporlo nel Concorso del festival (che, quest’anno, non vedeva registe italiane in corsa per il Leone d’Oro), ma il collocamento in una sezione meno “esposta” rispetto alla principale l’ha tutelato dal diventare il facile bersaglio dei commentatori più severi.
Perché, apparentemente, Un anno di scuola ha tutte le caratteristiche per essere sottovalutato, magari perfino snobbato: nei fatti si tratta di un teen drama d’ambiente scolastico con tutto il côté del filone tra amori, amicizie, delusioni e frustrazioni tipiche del periodo adolescenziale. Fermo restando che un’industria sana ha un disperato bisogno di film che intercettino un pubblico generalmente diffidente nei confronti del cinema italiano – meglio ancora se fatti così, senza ammiccare a giovani che non si conoscono davvero – si farebbe un torto al lavoro di Samani nel non rilevarne la profondità e la leggerezza, il rigore e l’adesione, il senso romanzesco e il cinema del reale.
Niente di nuovo per chi ha ammirato la sua opera prima, una delle più premiate degli ultimi anni, quel Piccolo corpo che colpì pubblico e critica sin dal suo primo passaggio alla Semaine de la Critique di Cannes nel 2021, per poi conquistare European Film Award e David di Donatello per l’esordio. Un lungo a cui è arrivata dopo la laurea in Cinema e Scienze della Comunicazione a Pisa, il diploma in regia al Centro Sperimentale di Roma e il cortometraggio La Santa che dorme presentato alla Cinefondation di Cannes nel 2016.


Piccolo corpo
Piccolo corpo, il limbo e il mistero del sacro
Ambientato in un piccolo villaggio di pescatori nel nord est italiano, in un inverno agli inizi del Novecento, Piccolo corpo segue il viaggio di una giovane donna che ha visto morire la figlia appena venuta al mondo. Secondo la tradizione cattolica che nega il battesimo a chi non ha mai respirato, l’anima della bambina è condannata al Limbo, senza nome e senza pace. Quando scopre di un luogo sperduto tra le montagne del nord, un santuario dove i bambini vengono riportati in vita il tempo di un respiro, quello necessario a battezzarli, la ragazza nasconde il piccolo corpo in una scatola e si mette in cammino verso quel posto, superando gli ostacoli di una natura impervia e lasciandosi aiutare da un ragazzo selvaggio.
All’origine c’è la riscoperta di un fenomeno dimenticato che Samani (anche sceneggiatrice con Elisa Dondi e Marco Borromei) articola attraverso la storia di una ribellione: anziché chiudersi nell’elaborazione del lutto, la protagonista osa sfidare le leggi di natura e quelli della religione, credendo istintivamente – disperatamente? – nella possibilità di un miracolo. Una riflessione che, a partire dal titolo, trascende il tempo e lo spazio per confrontarsi politicamente sulla questione del corpo delle donne, sulla riappropriazione di sé, sulla rivendicazione di un’identità.
La visione di Samani è poetica e radicale, evita il formalismo muovendosi tra visibile e invisibile, sfida la pretesa che tutto abbia una spiegazione e si confronta con il mistero del sacro, congiunge il rigore della materia con la fluidità dello spirito, assorbe, aggiorna e domina le lezioni di Ermanno Olmi e Pier Paolo Pasolini, il regionalismo di Grazia Deledda e Matilde Serao, l’evocazione gotica delle favole dei Grimm e una suggestione di genere non immune all’horror. Ma è con l’opera seconda che la regista ha spiazzato chi si aspettava un ritorno alle atmosfere del debutto.


Un anno di scuola
Un anno di scuola, la promessa del futuro
A maggior ragione considerando che la fonte letteraria scelta, Un anno di scuola appunto, si svolge in un luogo e in un periodo non lontani, ovvero a Trieste negli anni che precedono la Prima guerra mondiale. Samani si prende carico del testo autobiografico di Stuparich – particolarmente piombato in quel frangente storico – e lo trasferisce nel periodo della sua adolescenza: un vero adattamento che trova corrispondenze inedite, mai enfatizzate, singolari perché figlie tanto di un’esplorazione accorata e intellettuale del racconto quanto di un’autenticità territoriale e sentimentale.
Da una parte, c’è il 1909 con l’inserimento di una studentessa nella classe maschile del liceo classico all’indomani dell’apertura della scuola pubblica alle femmine; dall’altra, c’è il 2007 con l’arrivo di una ragazza svedese, arrivata insieme al padre dirigente di una grande azienda, in un Istituto Tecnico. Se Stuparich faceva riecheggiare i moti irredentisti, la promessa del futuro e l’annuncio della catastrofe bellica, Samani ragiona sull’identità territoriale (il dialetto), la ricomposizione di una frattura (l’eliminazione dei controlli di frontiera tra Italia e Slovenia), le avvisaglie della grande crisi economica. Lo schema, tuttavia, resta pressoché lo stesso, con la ragazza che si lega a tre compagni fino a sconvolgerne gli equilibri.
Per l’autrice, la protagonista diventa un’altra occasione per riflettere sull’essere adolescente “fuori dal mondo”, costretta a fare i conti con le conseguenze che le sue azioni e i suoi desideri hanno sui maschi. Un film memorabile che sembra unire Luigi Comencini e Mia Hansen-Løve, che trova un’autenticità inedita e struggente, la poesia del ricordo e la consistenza del quotidiano, le luci di un magnifico autunno e l’antiretorica delle prime volte, gli ultimi sguardi e i baci tra i vetri.
