Questa storia ha il sapore di un intrigante paradosso italiano, con quel pizzico di ironia che solo le migliori trame pirandelliane sanno regalare. Protagonista involontaria di questa narrazione è Alice Rohrwacher, regista che il mondo intero celebra con fervore, mentre in patria si accontenta di sorrisi appena tiepidi, accennati per cortesia. La domanda allora si pone da sola: siamo noi quelli strani, o lo sono tutti gli altri?

Partiamo dall’ultimo indizio. Quando il New York Times ha deciso di chiedere a cinquecento fra registi, attori e critici quali fossero i migliori film del XXI secolo, Alice Rohrwacher ha totalizzato più citazioni di Paolo Sorrentino, uguagliato Luca Guadagnino (il che è tutto dire, considerando che Guadagnino vive ormai nel sistema di Hollywood), e piazzato ben tre film (Le meraviglie, Lazzaro felice e La chimera) nella top dei colleghi più influenti del pianeta: da Sofia Coppola a Pedro Almodóvar, da Bong Joon-ho a Martin Scorsese. Insomma, per il cinema internazionale Alice Rohrwacher non è solo un'autrice: è un paradigma. E se il paradigma può definirsi attraverso un aggettivo, beh, allora è senz'altro "rohrwacheriano": una specie di ibrido poetico e filosofico che mescola realismo magico e crudezza neo-pasoliniana, marginalità rurale e favola etica.

Alice Rohrwacher (foto di Karen Di Paola)
Alice Rohrwacher (foto di Karen Di Paola)
Cannes 78, il red carpet della cerimonia d'apertura

Ma, come nelle favole migliori, esiste una prova da superare, un drago da affrontare: nel caso di Alice Rohrwacher, questo drago si chiama sistema del cinema italiano. I dati incontrovertibili sono lì, freddi e implacabili: ai David di Donatello ha accumulato 23 nomination, conquistando esattamente zero statuette. Ai Nastri d'Argento la situazione migliora, ma di poco: due premi vinti su una decina di candidature sparse negli anni. Quanto ai grandi festival, anche qui il paradosso si ripropone: Rohrwacher è più "di là" che "di qua". Ha partecipato cinque volte a Cannes, diventandone una presenza quasi rituale: nel 2011 con Corpo celeste (Quinzaine), nel 2014 con Le meraviglie (Grand Prix du Jury), nel 2018 con Lazzaro felice (Prix du scénario), nel 2022 con il corto Le pupille e nel 2023 con La chimera. In tutto, ha ricevuto due dei massimi riconoscimenti ufficiali del concorso e una reputazione crescente tra i selezionatori e il pubblico della Croisette. Venezia, per contro, l’ha accolta solo come giurata o con brevi progetti fuori concorso. Un’assenza che parla da sola, e che non può essere liquidata come semplice casualità: è la conferma di un allineamento naturale con l’estetica, il gusto e il sistema produttivo del cinema europeo continentale più che con le dinamiche interne del nostro panorama nazionale.

Per chiarire ulteriormente l’assurdo: nel 2024, La chimera, film lodato dal Guardian come "un’opera che occupa uno spazio narrativo tutto suo" e definito da Variety "meravigliosamente sinuoso", era in corsa con tredici candidature ai David. Ha vinto esattamente zero premi, mentre trionfavano Io capitano e C’è ancora domani, opere eccellenti ma decisamente più forti dal punto di vista produttivo e capaci di incassare rispettivamente dieci e trenta volte tanto. Io capitano, per dire, con la sua produzione robusta guidata da Rai Cinema, è arrivato persino nella cinquina degli Oscar, superando di gran lunga gli incassi internazionali della Rohrwacher. Eppure, con ironico tempismo, fu proprio Justine Triet—premiata quella stessa sera per Anatomia di una caduta come miglior film internazionale—ad esprimere tutto l'imbarazzo dei David dichiarando sul palco: «Vorrei parlare dell’ammirazione che ho per Alice Rohrwacher, che amo follemente. Ho amato tantissimo La chimera, che mi ha dato tantissime emozioni». Parole che scatenarono un applauso spontaneo in sala, creando una situazione paradossale: la regista italiana più elogiata dagli ospiti stranieri e ignorata dalla propria giuria nazionale.

Josh O'Connor e Alice Rohrwacher sul set di La chimera
Josh O'Connor e Alice Rohrwacher sul set di La chimera

Josh O'Connor e Alice Rohrwacher sul set di La chimera

(Simona Pampallona)

Viene da chiedersi, piuttosto, quali siano i motivi reali di questa rohrwacherfilia globale e, di contro, della fredda disattenzione italiana. Che cosa vedono i cineasti internazionali – da Bong Joon-ho a Sofia Coppola – che l’industria nazionale fatica a riconoscere? Forse è la sua lingua poetica, sospesa fra mito e realtà, oppure quella visione del mondo non urbana, arcaica e spirituale, così poco addomesticabile dal mercato.

È probabile che una parte del fascino stia nel suo stile, definito da Bong Joon-ho "un mix di realismo magico e neorealismo, con personaggi innocenti a confronto con colossi corruttori". Una cifra che seduce chi cerca uno sguardo riconoscibile, non riconciliato con la realtà, eppure profondamente immerso in essa. Al contrario, il gusto medio dei David – e più in generale del sistema cinema italiano – sembra prediligere opere ancorate al realismo sociale o al genere, film decifrabili, immediatamente leggibili.

Poi c’è il modello produttivo: Le meraviglie è una coproduzione italo-svizzero-tedesca, Lazzaro felice coinvolge ARTE e ZDF, La chimera arriva in sala con l’imprimatur francese di Ad Vitam. Rohrwacher è, da sempre, produttivamente europea. Questo le garantisce accesso ai fondi internazionali, diffusione nei festival, copertura critica. Ma al tempo stesso, agli occhi del sistema italiano, ciò potrebbe collocarla fuori campo, come se parlasse un dialetto troppo remoto – o troppo raffinato.

C’è anche una questione di ricezione: Lazzaro felice, ad esempio, è stato molto più apprezzato all’estero che in Italia, dove in alcune recensioni fu definito "confuso" o persino "irritante". Lo stesso vale per il tono rurale-poetico, per la scelta di girare in pellicola, per la marginalità dei personaggi e dei paesaggi. Tutti elementi che, nel panorama internazionale, diventano fascino esotico o profondità antropologica; mentre nel dibattito italiano possono risultare nostalgici, inutilmente stranianti, fuori moda.

Infine, c’è l’elefante nella stanza: Rohrwacher racconta storie che non si possono vendere con uno slogan. Non ci sono biopic di politici, drammi giudiziari o redemption story. Nei suoi film ci sono api, tombe etrusche, adolescenti che parlano con i morti. Racconta i margini – e non per denunciarli, ma per abitarli. Un gesto radicale, che altrove entusiasma, e che qui forse ancora spiazza.

Nel frattempo, mentre Roma tace, Cannes la premia, Hollywood la nomina agli Oscar, e la Santa Sede le tributa il Bresson, che a ben vedere è sì un premio italiano ma per metà vaticano (l’altra metà è Rivista del Cinematografo/Fondazione Ente dello Spettacolo), quindi almeno parzialmente extraterritoriale. Ecco, forse Rohrwacher è davvero una regista extraterrestre: vive in una terra di mezzo dove il folklore italiano diventa metafora universale e i confini – tra realtà e mito, vita e morte, città e campagna – si sciolgono in una sospensione magica che parla a tutti, tranne forse ai rappresentanti, agli attori e alle istituzioni del nostro cinema.

E così Rohrwacher resta un enigma: amata follemente all’estero, quasi ignorata in patria, eppure essenziale. Perché in fondo, a pensarci bene, forse Alice Rohrwacher non è solo una regista italiana. Forse è una delle voci più autentiche e internazionali che il cinema italiano abbia espresso nel XXI secolo – e sarebbe ora che anche l’Italia iniziasse a rendersene conto.