È quella elaborata da militanti cattolici? È per indirizzare il pubblico cattolico? È quella che appare su media cattolici? È quella che si preoccupa di scovare visioni che convertano alla compagine cattolica? È quella che preserva i cattolici da visioni sconvenienti? È quella che rinviene semi di cattolicesimo anche nelle opere che apparentemente non lo sembrano? È quella che distribuisce endorsement e patenti di “cattolicesimo” che a fini promozionali possono sempre servire?

Cosa sia la critica cattolica è arduo definirlo, soprattutto illudersi di stabilirlo una volta per sempre, con una sentenza che abbracci l’arco temporale dalla nascita di questa arte ad oggi. E ciò non per colpevole relativismo, ma perché la critica, se vitale e non esercizio retorico e formale, si modifica in funzione di altri cambiamenti: del suo oggetto, del contesto, dei media che la veicolano, dei suoi destinatari.

Due esempi polari: salvo rare eccezioni, aveva chiaramente un compito di indirizzo, tra il censorio (vietare una visione), e il doveroso (raccomandata per uso catechetico) la critica cattolica dell’Italia anni ‘50 e ‘60, pubblicata su carta, diffusa in milioni di copie, in cui il cinema era - più ancora della televisione - il principale fatto culturale di massa, in un’epoca in cui la contrapposizione ideologica era vivissima e come contrapposizione concepiva la politica, la cultura, la società. Una critica da situare in un tempo in cui le appartenenze erano fortissime (i milioni di tesserati alla Dc o al PCI, all’Azione Cattolica o all’ARCI), in cui tanta omiletica definiva peccaminosa per i cattolici la frequentazione, anche critica, di ambienti ispirati ad altre visioni del mondo.

Il disallineamento tra le modalità di quella stagione della critica cattolica, l’originalità di quella riuscita provocazione cinematografica e gli altissimi steccati ideologici causarono, in occasione del lavoro La ricotta di Pier Paolo Pasolini, il massimo allargamento della faglia tra il continente della chiesa ufficiale e quello della cinematografia che in modo autentico e raramente superato ha narrato il fatto cristiano.

Oggi – come dimostrano i saggi che qui pubblichiamo – la critica cattolica appare smarrita e addirittura si interroga sul suo scopo. È forse “colpa” dell’imperizia collettiva dei cattolici che svolgono ì mestiere di critici? Oppure la critica cinematografica cattolica è in crisi (ebbene, si) perché a livello formale e testuale, tra serialità e clip, non si sa bene cosa sia cinema oggi, non si ha chiaro chi siano gli spettatori interessati a questa arte e come (aldilà della forzature distributive, delle carenze delle sale e delle pigrizie di visione) vogliano realmente fruirne.

Inoltre: chi è definibile cattolico in questo tempo di appartenenze deboli? Chi va a messa? I battezzati? Chi segue determinati principi etici? Ma quali? Quelle che per la cultura cristiana erano considerate evidenze oggi con la loro luce paiono non rischiarare più i passi di tanti credenti. La complessità è tanta: si parla con tragica leggerezza, come se avesse significato compiuto, di credenti non praticanti, di cristianesimo per tradizione…

Si, è tempo di interrogarsi su quale sia lo statuto epistemologico della critica cattolica, valido e significativo per questo tempo. Forse la stagione è propizia per avviare una riflessione comune. Un percorso per chi si preoccupa di leggere, comprendere, interrogare e raccontare l’arte cinematografica e colloca il senso della propria vita nell’esperienza della fede cristiana. Ma che abbracci anche chi condivide un’esperienza culturale, editoriale, artistica in cui il senso religioso cristiano è posto seriamente e con coerenza come fondamento.

Come personale ipotesi da discutere e verificare porrei l’idea che la critica cattolica sia uno sguardo sul cinema che muove da una visione del mondo precisa, in cui bello e vero non sono esperienze differenti, autentico e umano stanno insieme, un senso è possibile ed è il “motore” della ricerca degli autori e del pubblico. Ma ancora: è uno sguardo che considera il mondo e i suoi drammi convinto che una salvezza è possibile, che l’umanità non è dannata e gettata nella storia ma visitata dal suo compimento, da Dio. Che nessuna estetica ha valore se non connessa all’etica, che la ragione della giustizia non sta solo nei tribunali e nelle leggi ma risiede nell’amore. In sintesi, è la visione del mondo che si nutre del Vangelo di Gesù Cristo e si argomenta nell’antropologia, cristiana.

Questa precisa complessità di sguardo è da intendere come un’offerta per la ricchezza del dibattito, non come pronunciamento d’autorità; è una riflessione che nasce da un’esperienza comunitaria (ecclesiale, culturale, redazionale, professionale) e si offre di essere interessante per tutti, non è concepita solo per il recinto dei credenti. Ed è uno sguardo che - pur mantenendo un solido radicamento - sta dentro la storia e le circostanze, ne segue gli sviluppi, mantiene il dialogo con tutti, ne cerca sempre nuove relazioni.