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Tardes de soledad
In Tardes de soledad (2024) Albert Serra costruisce quello che in termini generali diremmo un documentario su un torero, il peruviano Andrés Roca Rey. Andando più a fondo, vediamo che le cose sono più complicate. Il film si sviluppa sempre con campi stretti sul torero, sul toro e sul loro duello, con spettatori presenti solo come indistinto vociare. E vediamo per più volte il ripetersi rituale del percorso del torero: albergo (vestizione), pullmino, corrida e ritorno. Il torero è accompagnato dai suoi collaboratori che lo aiutano in un duello che riguarda di fatto solo lui e il toro. Alla fine di questo percorso, ci rendiamo conto che di fatto il film non documenta proprio nulla.
Non sappiamo nulla del torero né della sua vita, né delle corride. Quello che vediamo è l’esposizione di un rituale di morte e di uccisione, che si rinnova e si ripete ciclicamente nel succedersi delle corride. Nella sfida e nel duello vediamo il rischio di morire del torero, ma soprattutto vediamo la certezza della morte del toro, che avviene attraverso il susseguirsi rituale di gesti, versi, atti, che il torero compie.
L’uccisione rituale al centro della tauromachia è il cuore di Tardes de soledad, che è costruito letteralmente come dimensione estetica di un sacrificio rituale. Nulla a che vedere dunque con un documentario, se non per il fatto che il film restituisce in immagine un sacrificio che realmente avviene nella realtà. Il film è connotato da una dimensione mitico-rituale che si inscrive e plasma la forma stessa.


Bella e perduta
Se allarghiamo la prospettiva all’Italia, e la arretriamo temporalmente, vediamo che molto del cosiddetto cinema del reale, o che in tale idea sembra trovare la sua origine, si proietta in una dimensione immaginario-favolistica libera da istanze documentarie. Prendiamo Bella e perduta (2015) di Pietro Marcello, che parte dal documentare il pastore Tommaso che si prende cura della Reggia di Carditello. Ma quando Tommaso realmente muore il giorno di Natale (come ci mostra il Tg2), rinasce bufalo e maschera di Pulcinella, in un processo metamorfico profondo, che si radica nelle credenze e nei miti del territorio ed opera una potente trasfigurazione della morte. La morte si ribalta in vita, sia pure animale, o nella perennità di una maschera.
La stessa cosa accade ne Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino, con il pastore che morendo diventa capra, questa albero e così via. O anche ne Il buco (2021), dello stesso Frammartino, la morte del pastore si trasforma nel finale nella sua voce che copre tutta la vallata. Anche il cinema di Alice Rohrwacher integra una profonda struttura di carattere mitico nelle forme apparenti di un cinema che nasce dall’incontro con la realtà: l’approdo ultimo di Lazzaro felice (2016) è la morte di Lazzaro stesso che rinasce lupo, così come alla fine de La chimera (2023) vediamo la ricongiunzione tra Arthur e l’amata Beniamina, in cui la morte non diventa la fine di qualcosa, ma si converte nell’inizio di un ricongiungimento. E questa ricongiunzione sembra immaginare un tempo che eccede perfino quello ciclico, incarnato dal carro del Carnevale che attraversa il paese, nel quale è coinvolta la banda di tombaroli che il film ci presenta.


Le quattro volte
Insomma, molto cinema che nasce o si dice nascere dall’incontro con la realtà porta alla rappresentazione di mondi che da questa realtà si distanziano profondamente, che trasfigurano il reale piuttosto che rappresentarlo. Non rappresentano il visibile e ciò che appare ai nostri sensi, secondo una presunta dinamica di “documentazione”, ma costruiscono immaginativamente mondi che si formano non solo su ciò che non si vede, ma su possibilità che si collocano anche al di là di ogni verosimile uso dell’immaginazione (come nella profonda e radicata, da un punto di vista antropologico, metamorfosi dell’uomo in animale). Va posta a questo punto una domanda: perché questo? Perché la realtà nel suo accedere ad immagine non basta a sé stessa?
L’uomo, nel misurarsi con la sua condizione mortale e con la struttura lineare della vita, manifesta sempre la necessità di trasfigurarle, di inserirle in una dimensione ad alta densità simbolica che dia loro senso, come la morte ritualizzata nella corrida, o il tempo ciclico e metamorfico della natura o dei miti; fino a giungere alla ricongiunzione orfica dei vivi e dei morti, dei corpi e delle anime. Questa sospensione del tempo sembra individuare una sorta di racconto di salvazione dal tempo storico, dallo smarrimento del senso che abita le forme di vita del quotidiano, frammentate e segnate dall’uso dominante delle tecnologie.


Una scena di La chimera
È questo che spiega il successo di questi film, anche in contesti internazionali, molto distanti dalle realtà che i film rappresentano. Il senso di ciò che viene portato ad immagine resta in un altrove rispetto a ciò che l’immagine mostra. Risiede in una potenza che emerge quando l’immagine si disconnette dal suo raccordo meramente narrativo con il mondo e con le altre immagini, facendosi dispositivo rituale (a seguito del toreare in Tardes de soledad), infinità di un piano sequenza che arriva a coincidere con la realtà stessa (la morte del pastore ne Le quattro volte), trasfigurazione onirica di personaggi e situazioni dopo la morte (nel ricongiungimento amoroso de La chimera). Il tratto sperimentale di questo cinema del reale risiede non in una avanguardistica sperimentazione dei linguaggi, ma in una marcata ritualizzazione delle forme, attraverso la quale la forma stessa ritrova il suo senso e noi spettatori ne percepiamo la grande potenza rigenerante. C’è un tratto antico in questo cinema, solo individuando il quale possiamo percepire, nel senso più potente, la sua radicale novità.