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The End
“The End sembra un film sul futuro, ma in realtà è un’allegoria del presente” dice Joshua Oppenheimer, arrivato al Biografilm di Bologna insieme a George MacKay per presentare The End, la sua prima esperienza nella fiction dopo documentari pluripremiati come The Look of Silence e The Act of Killing, dal 3 luglio nelle sale italiane con I Wonder Pictures.
È la storia di un mondo finito, dove qualuno “sopravvive” in un bunker riarredato come una casa di lusso: Madre (Tilda Swinton), Padre (Michael Shannon) e Figlio (MacKay) cercano di mantenere la speranza e un senso di normalità aggrappandosi a piccoli rituali quotidiani, finché arriva un’ospite inattesa (Moses Ingram).
“Siamo i primi esseri umani nella storia a sapere che ci estingueremo – rassicura Oppenheimer – e sappiamo di aver talmente consumato il pianeta da dover scomparire nei nostri bunker ideali, amplificati dai social media: il narcisismo e la paura. Dobbiamo imparare a sopravvivere trasformando radicalmente il modo in cui viviamo insieme su questa terra”.


Joshua Oppenheimer
(Karen Di Paola)“Apocalisse significa rivelazione”
Sin dal titolo, The End ha le stimmate del film apocalittico: “Ma il significato etimologico della parola indica uno svelamento, una rivelazione – riflette il regista – ed è per questo che il libro dell’Apocalisse si chiama così. Stiamo già vivendo nel mondo di dopo. Il nostro presente è post-apocalittico. Dobbiamo chiederci come cambieremo, come troveremo il coraggio di ammettere dove abbiamo sbagliato, chiedere perdono se necessario, trovare la compassione per perdonare noi stessi e coloro che amiamo”.
Alla sua prima regia fuori dal documentario, Oppenheimer ha scelto il musical, con le composizioni di Joshua Schmidt e Marius de Vries: “Senza canzoni sarebbe la storia desolante di una famiglia che lotta per sopravvivere. Ma questo è un film che parla davvero di autoinganno, negazione, illusione. Stiamo precipitando verso l’abisso, ma, insomma, il sole sorgerà domani, no? Il musical è essenzialmente il genere definitivo di questo tipo di ottimismo infondato. Che poi è la disperazione, spesso mascherata dal cinismo. È il lupo della disperazione travestito da pecora della speranza. Il musical è la quintessenza dell’illusione”.
Ma, rispetto alla consuetudine del genere, in The End le canzoni funzionano al contrario: “Quando la verità ha perforato la loro bolla, i personaggi cercano nuove scuse per romanticizzare la loro condizione attraverso le canzoni. Cantano per convincersi che le cose andranno bene e che possono continuare così come sono, senza cambiamenti, e che tutte le loro scelte erano giustificate. Con Joshua Schmidt è stata un’esperienza magica, mi ha insegnato a usare una sorta di monologo interiore per costruire i testi per ogni personaggio. Mi sono sentito come l’apprendista stregone che impara gli incantesimi”.
“la famiglia è un rifugio che può diventare una gabbia”
The End è soprattutto il ritratto di una famiglia disfunzionale: “Nel film è una gabbia, non è più un rifugio, è il luogo della vergogna irrisolta. La ragazza che irrompe nel loro mondo porta onestà, compassione, risveglia la loro umanità. Ma non riesce a spingerli fino in fondo. È un monito per tutti: siamo completamente e veramente interdipendenti con tutti su questa terra, ma se ci aggrappiamo gli uni agli altri i rifugi diventano bunker”.


George MacKay in The End
(Felix Dickinson/NEON)Per George MacKay, non nuovo a esperienze fuori dall’ordinario (lo ricordiamo in The Beast di Bertrand Bonello), lavorare con Oppenheimer è stato sorprendente: “Abbiamo avuto molto tempo prima di iniziare le riprese, mancavano ancora dei finanziamenti. Quindi c’è stato un dialogo piuttosto intenso, non sapendo quanto potevamo iniziare a girare. È stato un periodo davvero utile per conoscerci e capirci, abbiamo piantato un’enorme quantità di semi e così si è formata la comprensione. E gran parte di queste erano solo conversazioni, chiamate Zoom, e-mail. Josh mi ha descritto il suo lavoro con Mikhail Krichman, il direttore della fotografia, e ho capito quanto fosse rigorosa la preparazione”.
E continua: “Questo film è come un tweed: un motivo sopra un motivo per creare un altro motivo e così via. Il mio ruolo è uno di quei motivi. Arrivati sul set avevamo entrambi le nostre visioni: sono un interprete, conosco il mio personaggio, ma lui è così esigente, con se stesso e con gli altri, tant’è che sul set mi ha fatto delle interviste proprio sul personaggio”.
Stima reciproca, a sentire il regista: “George ha un grande amore per lo sport, è un attore che padroneggia l’ignoto attraverso il suo corpo, la sua anima. Gli attori sono i più grandi atleti del mondo, quindi penso che George sia il più grande atleta del mondo”. E sui temi del film, riflette MacKay: “Non è tanto la storia di un conflitto tra vecchi e giovani. Il problema di questo momento è che tutto è così diviso. Josh, invece, mette in evidenza le sfumature, le complessità”. D’altronde, la complessità s’attaglia all’apocalisse: “Il film – dice il regista – ci dice che dobbiamo cambiare rotta. Tilda Swinton ama dire che quando esci dal cinema c’è ancora un cielo sopra di te. È così”.