Puntuale come le stagioni che si avvicendano, arriva il contributo annuale di Woody Allen alla storia del cinema mondiale. «Quando finisco un film so che, tempo qualche mese, arriverà il prossimo. Non so mai cosa scriverò, dipende dai momenti – dice –. A volte, l’ispirazione mi viene sotto la doccia, improvvisamente. Altre volte non viene. Allora mi chiudo in una stanza e mi sforzo di pensare. È una tecnica che ho imparato quando ero agli inizi, e dovevo sfornare uno sceneggiato televisivo alla settimana, crollasse il mondo. Funzionava allora e funziona ancora».

Stavolta, oltre che alla fantasia dei suoi fan, il regista-attore di Brooklyn fa un omaggio all’arte italiana, offesa dall’incendio che ha mandato in cenere la Fenice. Il suo film n. 26, Tutti dicono I Love You, un musical peraltro girato, almeno in parte, tra calli e gondole, è dedicato alla ricostruzione del bel teatro veneziano; proprio come il trionfale tour europeo compiuto con la sua band musicale nella scorsa primavera. «Avevo tanta voglia di tornare a lavorare nel vostro Paese – dice Woody Allen – è così romantico...».

Drew Barrymore, Edward Norton in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto
Drew Barrymore, Edward Norton in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto

Drew Barrymore, Edward Norton in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto
 

Convincere Allen a parlare di un progetto quando è ancora incompiuto è impresa impossibile. Ne sanno qualcosa gli attori che lavorano con lui, i quali riescono a strappargli, al massimo, le battute che devono dire, mai l’intera sceneggiatura, tenuta rigorosamente segreta fino all’ultimo ciak. Complessivamente però, complici forse gli anni che passano o le vicissitudini che hanno recentemente cadenzato la sua vita privata, il “riccio” Allen sembra oggi molto più aperto di ieri nei confronti dei giornalisti. «Non è vero – controbatte facendo finta di offendersi – siete voi giornalisti che invecchiando avete cambiato atteggiamento».

A sessant’anni suonati Allen Stewart Konigsberg, detto Woody, acquista – visto da vicino – in dolcezza e comunicativa. Perde qualche tic e sembra inseguire negli altri il consenso che da solo non riesce a darsi definitivamente. Gli amori più grandi, ora che sembra uscito finalmente dal tunnel del rapporto drammatico con Mia Farrow, tornano a essere New York, il cinema, l’ironia. «Amo New York, come tu puoi amare tua moglie, quando l’ami, anche se scopri che è infedele o si ubriaca. L’ho amata fin da quando ero bambino. Negli ultimi anni New York si è lasciata andare, ha avuto momenti difficili, è andata peggiorando. Ma per me è sempre la stessa. Posso vederla solo con gli occhi di un amante».

E cosa rappresenta per lei la musica? È contento del successo raccolto in Europa col suo clarinetto?
Certo. Ma so benissimo chi sono. Sono un “jazz person”, sono un fan del jazz, sono un pessimo suonatore. La gente viene a vedermi suonare perché mi vede nei film, per curiosità. Sanno che al “Michael’s Pub” possono vedere me e la “New Orleans Funeral & Ragtime Orchestra” anche il lunedì degli Oscar. Ma non mi illudo. Sono un tremendo clarinettista. Spero solo che si divertano come mi diverto io.

Julia Roberts in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto
Julia Roberts in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto

Julia Roberts in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto
 

Per il nuovo film ha fatto uno strappo alla regola, ha scelto attori diversi dal solito. Julia Roberts e Tim Roth, Drew Barrymore, Alan Alda, anche Kim Rossi Stuart. Ha deciso di cambiare registro?
No, non c’è una regola fissa. È vero che mi piace lavorare spesso con le stesse persone. Perché è più semplice, come in ogni lavoro, non dover ricominciare ogni volta da capo.

Anche stavolta, come sempre, c’è molta attesa per il suo film. Cosa si prova a essere un “eroe” del cinema?
Be’, penso di aver un’età che mi consente di essere un eroe. Non mi trovo affatto male nei panni di un eroe. Anche se mi rendo conto che è solo per la mia età, non per i meriti artistici, che posso essere un eroe. Ho compiuto sessant’anni in dicembre. Sono maturo. Soprattutto se penso che l’intera parabola del cinema è durata appena cent’anni. Più o meno la vita di un uomo qualunque.

In uno dei suoi film più famosi, Manhattan, Woody Allen stilava la famosa lista delle cose per le quali vale la pena vivere. Oggi rifarebbe la stessa?
Sì, ma con un’eccezione. In Manhattan avevo un figlio assieme a Meryl Streep. Finito il film ricevetti la lettera di una signora, che mi rimproverava per non aver inserito il bambino nella lista. Allora cestinai la lettera e pensai che quella signora era una stupida. Oggi ho capito che avevo torto. Se rifacessi quella lista, mio figlio sarebbe al numero 1.

Meryl Streep è l’unica attrice che sostiene di non aver alcuna voglia di lavorare di nuovo con Woody Allen. A parte, naturalmente, Mia Farrow. Come giudica, oggi, la sua ex partner?
Ho amato molto lavorare con Mia. Artisticamente ci siamo divertiti, lei è un’attrice fantastica. Certo, abbiamo avuto problemi in tribunale. Ma nel fare cinema credo che anche lei si sia divertita molto assieme a me.

Woody Allen in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto
Woody Allen in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto

Woody Allen in Tutti dicono I Love You (1996), @Webphoto
 

Insomma, è il cinema, ancora oggi, la cosa più importante per Woody Allen?
Certo, è sempre una delle cose più importanti della mia vita. È uno dei piaceri più grandi. Mi ha aiutato a vivere la fanciullezza. Mi ha permesso una vita interessante, è un buon lavoro. In questi giorni, niente mi fa più piacere del pensiero di un buon film che esce nelle sale. Non amo i cattivi film. Ma i film di gente come Altman, Coppola, Scorsese mi rendono felice. E naturalmente i film di registi come Fellini, Antonioni, De Sica, che sono stati il mio approccio col cinema. Li rivedo sempre con estremo piacere. Magari nella mia saletta privata, con un amico e un buon bicchiere di vino. Ma comunque un buon film, non importa se giallo, romantico o musical, basta che sia un buon film: per me è sempre una gioia. E quando esce, esco anch’io, per le vie di Manhattan, mi mescolo tra la gente e vado al cinema.

E Woody Allen andrà a vedere anche Tutti dicono I Love You? 
Nooo, non vado mai a vedere i miei film. Perché sarei sempre lì a dire: “Ma guarda cosa ho fatto, perché non ho tagliato lì? Perché non ho girato quella scena in maniera differente?”, ecc. ecc.»

Continuiamo a chiacchierare senza tempo, nella stanza dell’albergo newyorkese che Carlo Di Palma, amico e compagno di lavoro inseparabile del regista, ci ha prestato per l’intervista. Piccolo, quasi accovacciato su se stesso, potrebbe continuare – con quel suo modo pacato e intelligente – a rispondere per ore alle domande. Forse pacificato, dopo quel brutto periodo delle lotte legali che sembrava non dover finire mai. E sprizza, Woody Allen, dal divano in cui si è rifugiato, fluidi di energia. Gli stessi che convoglia, di volta in volta, nel film dell’anno.

Già sta scrivendo il prossimo, quello del ’97. Cosa lo spinge? Da dove ha tratto la forza per superare le difficoltà e tornare a vedere rosa?

Si considera un ottimista?
Credo in fondo, ma proprio in fondo, di essere un pessimista. È vero, ho molta energia, ma non guardo al mondo con una visione rosea. Conosco benissimo tutti i problemi della vita, conosco la tristezza... Direi che la mia è piuttosto una visione tragica della vita. Poi capita che il mio talento sia comico. Ma la mia prospettiva, la mia forza, sono certamente più tragiche che comiche.