PHOTO
WOODY ALLEN PHOTO: ©MGM/Brian Hamill
Quando ci saremo stancati di scagliare pietre contro il marito fedifrago, il padre molestatore, il misantropo e il manipolatore, forse troveremo il tempo di celebrare Woody Allen. Prima che la macchina del fango completi il lavoro, facendo calare sull’artista ebreo-newyorkese la scure della definitiva damnatio memoriae. Nel frattempo, tanti auguri Woody, per questi primi novant’anni. Che sul suo corpo mai adonico sembrano passati con una certa indulgenza, come si conviene a chi brutto lo è sempre stato anche da giovane (“del resto” ricordava Bette Davis, “la bruttezza ha un vantaggio sulla bellezza: non passa mai”).


Auguri per quella vivacità del pensiero, per quella ebrietudine sentimentale che non si è mai del tutto asciugata, per l’elasticità dell’intelligenza e la solidità di uno sguardo in cui s’incagna una sapienza rabbinica ultramillenaria. Novant’anni portati meravigliosamente, con la longevità incontinente di una carriera cinematografica, un’ispirazione che torna ostinatamente a rigenerarsi film dopo film, la passione testarda per il jazz. Mentre lo processiamo sul piano morale, forse dovremmo chiederci che filosofia della vita, dell’amore, del caso, della colpa e dell’illusione ci ha consegnato questo piccolo ebreo di Brooklyn: quale saggezza minima – ironica, dolente, lucidissima – sopravvive oggi nei suoi film, anche quando diciamo di non vederli più.
Dare a Woody quel che è di Woody
Se dovessimo condensare l’Allen-pensiero in una sola barzelletta, basterebbe l’epilogo di Io e Annie (1977). Uno va da uno psichiatra e gli dice: «Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina». E il dottore gli dice: «Perché non lo interna?» E quello risponde: «E poi a me le uova chi me le fa?»
È una delle chiavi di volta della sua saggezza. L’amore, la coppia, la famiglia – tutto ciò a cui di solito affidiamo una promessa di senso – sono assurdi, destinati al fallimento, esposti alla noia, al tradimento, alla delusione. Eppure, non possiamo farne a meno. Continuiamo a credere in ciò che sappiamo imperfetto, tornare alle stesse dinamiche, rifare la stessa sciocchezza: innamorarci. Abbiamo bisogno delle uova.


Woody Allen, Diane Keaton in Io & Annie (1977), @Webphoto
Io e Annie (1977), uno dei due più grandi film d’amore degli anni Settanta (l’altro è Manhattan, ovviamente), mette in scena la fine di una storia e, nello stesso istante, l’irriducibile necessità. La sua filosofia sentimentale è tutta qui: riconoscere il carattere a volte autodistruttivo dei legami e, invece di respingerli o idealizzarli, accettare che proprio in questa loro irrazionalità si gioca la parte migliore di noi. Roba da far impallidire gli anestesisti delle passioni di oggi.
Le passioni e il Talmud
Già, le passioni. È qui che la speculazione alleniana si fa carne. E verbo. I film di Woody sono una serie infinita di discussioni: coppie in analisi, famiglie a tavola, amici a passeggio, terapisti, rabbini, professori, attrici, scribacchini che riempiono il silenzio di casi, contro–casi, interpretazioni, obiezioni. Non c’è mai un’ultima parola. Come nel Talmud, la verità non sta nella sentenza finale ma nella disputa. L’amore stesso, nei suoi film, esiste perché viene raccontato, analizzato, smontato e rimontato in conversazioni interminabili.


Manhattan (1979), @Webphoto
Manhattan (1979), secondo grande romanzo sentimentale dei Settanta, è il film in cui Allen prova a rispondere alla domanda meno teorica e più filosofica che ci sia: “Perché vale la pena vivere?”. Isaac, disteso sul divano, dettando nella testa l’incipit del romanzo che non scriverà mai, comincia volando alto: Cézanne, Bergman, Mozart, Louis Armstrong. Poi, via via, scende: il granchio al vapore al ristorante sulla 42esima, il viso di Tracy. Nessuna grande idea, nessuna Verità ultima. Solo una serie di “piccole gioie quotidiane” – la musica, un’inquadratura, un piatto di pesce, un volto amato – che compongono una metafisica dei giorni feriali. Allen non crede che la vita “abbia” necessariamente senso, ma mille buoni motivi per viverla. Manhattan è il suo jukebox di passioni: il jazz, le commedie di Lubitsch, lo skyline di una città che non gli vuole bene ma che continua a chiamare casa.
È qui che il suo pensiero tocca la tradizione ebraica alla radice, quella del Qoèlet. Anche il Predicatore, di fronte alla «vanità delle vanità, tutto è vanità», non si rifugia in una grande teoria consolatoria: prende atto che non c’è un disegno leggibile, che “il tempo e il caso” capitano a tutti, che il giusto e l’empio condividono la stessa sorte. E però, in mezzo a questo disincanto radicale, si può sempre godere del pane, del vino, del lavoro delle proprie mani, dell’amore per la donna amata. Finché è tempo. Non perché queste cose “spieghino” l’esistenza, ma perché rendono tollerabile la sua insensatezza.
Sono solo cose serie
Io e Annie e Manhattan sono incastonati tra il primo Allen – quello delle farse, da Prendi i soldi e scappa (1969) ad Amore e guerra (1975), in cui l’umorismo è il modo in cui il debole, lo scapigliato, il nevrotico tengono testa al caos del mondo – e quello più cupo e bergmaniano che verrà subito dopo. Quando il comico newyorkese decide di prendere sul serio, fino in fondo, le domande di sempre – Dio, il male, la famiglia, la colpa – e prova a metterle in scena spogliando il suo cinema di quasi tutto ciò che lo aveva reso popolare: le battute, il ritmo, l’adorabile cialtroneria dei nevrotici.


Mia Farrow, Michael Caine in Hannah e le sue sorelle (1986), @Webphoto
Interiors (1978), Settembre (1987), Un’altra donna (1988) sono fotografie livide, autunnali, che ritraggono camere chiuse, silenzi, madri depressive, padri che se ne vanno, sorelle che si feriscono a coltellate verbali. Allen prende in prestito da Bergman il dispositivo del dramma da camera, applicandolo non alla borghesia nordica, ma a quella ebraico-protestante americana: stessi fantasmi, diverso mobilio.
Sono film spesso accusati di “seriosità” eccessiva, ma proprio lì si definisce l’idea che il comico non sia l’alternativa al tragico, bensì il suo rovescio. Hannah e le sue sorelle (1986) è il punto di equilibrio: un film apertamente “checoviano”, costellato di personaggi che ruotano gli uni attorno agli altri tra tradimenti, riconciliazioni, micro-rivelazioni. In fondo, è il racconto di un uomo che medita il suicidio per la mancanza di senso e finisce per trovare consolazione in un film dei fratelli Marx: Bergman e lo slapstick che vanno a braccetto.
Colpa e caso
Alla fine del ciclo “serio”, Allen smette di chiedersi se valga la pena vivere per l’amore o per le altre passioni, e comincia a chiedersi che cosa succede quando né l’una né le altre bastano più. È il sentiero che porta direttamente a Crimini e misfatti (1989) e poi a Match Point (2005): una volta verificato che Dio tace il passo successivo è immaginare un mondo in cui forse non c’è mai stato. Da lì in poi, la domanda non sarà più “perché soffriamo?”, ma “chi paga il conto delle nostre azioni, se nessun occhio ci osserva dall’alto?”.


Anjelica Huston, Martin Landau in Crimini e misfatti (1989), @Webphoto
In Crimini e misfatti un uomo potente organizza l’omicidio dell’amante che lo ricatta. Non solo non viene punito, ma finisce per essere persino “assolto” dalla propria coscienza. In Match Point un giovane arrivista costruisce il proprio destino sull’omicidio e sull’impunità, mentre la pallina da tennis, nell’indimenticabile prologo, si ferma proprio sulla retina della rete: può cadere di qua o di là, e lì si decide tutto. Altro che provvidenza: a governare il mondo è l’arbitrio cieco del caso.
Qui la filosofia alleniana abbandona ogni residuo romanticismo e si fa spietatamente laica. Dio non c’è, o se c’è si è distratto. Il bene non viene premiato, il male non viene punito, la morale non è iscritta nella stoffa dell’universo. Non esiste un ordine superiore che riequilibri, alla lunga, i torti e le ragioni.


Jonathan Rhys-Meyers, Scarlett Johansson in Match Point (2005), @Webphoto
E però, anche dentro questo nichilismo urbano, Allen rifiuta il salto definitivo nel cinismo. Non ci dice: “Siete autorizzati a fare qualsiasi cosa perché tanto nessuno vi becca”. Ci dice: “Sappiate che là fuori non c’è nessun giudice ultimo: l’unico tribunale è quello che vi portate addosso”. La colpa non è un concetto teologico ma una forma di memoria. Il vero ergastolo è convivere con ciò che abbiamo fatto, o non abbiamo avuto il coraggio di fare. Nessun cielo per i giusti, nessun inferno per i colpevoli. La morale, se c’è, è senza premio: essere capaci di rispettare almeno un poco la persona che ci guarda dallo specchio.
L’arte delle illusioni
Il quarto movimento è quello delle illusioni. Stardust Memories (1980), La rosa purpurea del Cairo (1985), Radio Days (1987), Midnight in Paris (2011) sono tappe di un’unica grande indagine: che cosa ce ne facciamo delle storie, dei film, delle voci alla radio, dei sogni a occhi aperti? Dobbiamo smascherarli o proteggerli?
In Stardust Memories l’illusione è quella dell’autore che vorrebbe essere preso sul serio, inseguito da fan e critici dentro un eterno festival-funerale, prigioniero della propria immagine e delle proiezioni altrui.
In La rosa purpurea del Cairo, il personaggio esce letteralmente dallo schermo per corteggiare una spettatrice. Il sogno romantico prende corpo, si fa carne. È una gioia breve: la realtà lo richiama indietro, il film deve proseguire, la sala si richiude nel suo buio. Eppure, in quella parentesi di infedeltà alla realtà, la protagonista ha vissuto qualcosa di più vero della sua vita “vera”.
In Radio Days è la radio a trasformare la vita di una famiglia qualunque in un romanzo corale di voci, musiche, fantasie condivise.


Marion Cotillard, Owen Wilson in Midnight in Paris (2011), @Webphoto
In Midnight in Paris (2011) la nostalgia diventa macchina del tempo: ogni personaggio è convinto che l’età d’oro sia quella precedente – gli anni ’20 rimpiangono la Belle Époque, la Belle Époque rimpiange il Rinascimento, e così via. Allen smonta con eleganza il culto reazionario del “si stava meglio quando si stava peggio”: il passato non è mai stato come lo immaginiamo, è un’invenzione prospettica per rendere tollerabile il presente.
E allora? Rinunciamo alle illusioni? Torniamo a casa, accendiamo la luce e ci diciamo: “Non c’è niente”? Neanche per sogno. Allen non è iconoclasta: sa che senza illusioni la vita si riduce a contabilità dei giorni. La sua morale, anche qui, è paradossale: illudersi sapendo di illudersi.
Il tardo Allen: la saggezza dell’insistenza
Negli ultimi vent’anni, tra alti e bassi, si intravede un’altra forma di saggezza: quella del continuare. Continuare a girare un film all’anno, anche quando Hollywood ti volta le spalle, parte del pubblico ti boicotta, la tua figura pubblica viene sporcata. In opere come Blue Jasmine (2013), Irrational Man (2015), Rifkin’s Festival (2020), Un colpo di fortuna (2023) si sente un autore che ha accettato due cose elementari e per questo difficili.


La prima: che il proprio canone è già scritto. Il “grande Allen” – quello che ha cambiato la grammatica della commedia sentimentale e del film morale – sta negli anni Settanta e Ottanta, e lui lo sa benissimo. Da lì in poi gioca a variazioni sul tema: rifà i maestri amati, si autocita senza pudore, si concede la malinconia, torna sui medesimi nodi (il caso, il delitto, la donna in crisi, l’intellettuale fallito) come se stesse improvvisando sempre lo stesso jazz. Non cerca più il capolavoro ma una forma di costanza, di fedeltà al proprio lessico.
La seconda: che la dignità sta nel lavoro, comunque. Continuare a scrivere, girare, montare come se la carriera non fosse una biografia da salvare o da ripulire, ma una serie di tentativi, bozzetti, improvvisazioni. Non c’è più il mito dell’Autore da difendere, c’è l’artigiano che ogni anno trascina una troupe, raduna qualche attore, trova una città da filmare, infila un paio di idee buone in un’ora e mezza di cinema e poi passa oltre.
È una saggezza quasi zen quella di accettare la propria finitezza, di non poter più controllare il proprio mito, e continuare tuttavia a “soffiare nel clarinetto”. A novant’anni, forse, non c’è altra filosofia che questa: il mondo è storto, l’amore è insano, la giustizia non è garantita, le illusioni sono fragili e il tuo nome, un giorno, verrà archiviato o infangato; ma finché hai fiato, puoi ancora suonare, parlare, girare. Puoi continuare a chiedere uova a un fratello che crede di essere una gallina. Non è molto, ma è tutto quello che abbiamo.


