In una celebre lettera di Groucho Marx ai fratelli Warner che gli avevano vietato l’utilizzo della parola Casablanca nel film parodia Una notte a Casablanca, il comico americano lamentava: «Voi sostenete di essere i proprietari di Casablanca e vietate a chiunque di usare questo nome senza il vostro permesso. Ma come la mettiamo con "Warner Brothers"? È vostro anche questo? Probabilmente avete il diritto di usare il nome Warner, ma Fratelli? Professionalmente, noi siamo fratelli da molto più tempo di voi… del resto prima di noi ci sono stati altri fratelli: i Fratelli Lumière, i Fratelli Karamazov, Dan Fratelli, un esterno che giocava nel Detroit, e la canzone "Fratello, ti avanza un nichelino?" Non riesco proprio a capire il vostro comportamento. Anche se intendete rispolverare il vostro film, sono sicuro che col tempo lo spettatore medio imparerà a distinguere Ingrid Bergman da mio fratello Harpo. Io non so se ci riuscirei ma di sicuro mi piacerebbe provarci».

Una missiva talmente incisiva (ed esilarante) che la Warner decise di concedere l’utilizzo di Casablanca per il titolo del film, con buona pace dell’iconico lungometraggio con la coppia Bogart–Bergman. E oggi che a Burbank, sede storica della Warner, arrivano ben altre lettere nel momento, forse, più drammatico dello studio fondato da Harry, Sam, Albert e Jack Warner il 4 aprile 1923, chi avrebbe mai immaginato che le cosiddette Streaming Wars si sarebbero trasformate, invece, in una vera e propria guerra natalizia per il controllo di uno degli studi più importanti della storia del cinema, la Warner Bros.?

Warner Bros.
Warner Bros.

Warner Bros.

Uno dei cosiddetti big five: Warner Bros., Paramount Pictures, Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), RKO Pictures e, dal 1935, 20th Century Fox – erano i colossi assoluti. Possedevano catene di sale cinematografiche sparse in tutto il Paese, decidevano quali film venissero proiettati e imponevano contratti di lungo termine agli attori, ai registi e ai tecnici. In questo modo, gli Studios non solo producevano film, ma creavano vere e proprie “fabbriche di sogni”, capaci di plasmare l’immaginario collettivo e di trasformare interpreti in star riconosciute a livello mondiale. Accanto alle cinque grandi, esistevano le Little Three: Universal Pictures, Columbia Pictures e United Artists. Questi ultimi non possedevano catene di sale, ma erano comunque influenti nella produzione e nella distribuzione.

Un secolo dopo, mentre i rimanenti Disney–Fox e Sony (ex Columbia) stanno alla finestra a guardare quanto accade, con Amazon che ha già acquisito la MGM, ecco che ci troviamo dinanzi a uno scontro molto singolare, diventato – in gergo – “ostile”.

Da una parte la nuova Paramount di David Ellison, dall’altra Netflix, con il terzo incomodo Comcast, proprietario di Universal Pictures, pronto a inserirsi nella contesa, sebbene – oggi – apparentemente meno favorito. Sullo sfondo, David Zaslav, amministratore delegato di Warner Bros. Discovery, che per un compenso di quaranta milioni di dollari l’anno – senza contare le stock option – ha condotto in maniera sensibilmente poco accorta il suo Studio fino a renderlo vulnerabile a queste manovre di conquista. E, come se non bastasse, l’ombra di Donald Trump incombe su Hollywood: un presidente che non ha mai nascosto il suo disprezzo per l’ambiente liberal dell’industria audiovisiva e che oggi appare intenzionato a intervenire direttamente nelle grandi fusioni, trasformando la partita economica in un braccio di ferro politico.

Se Warner Bros. Discovery dovesse respingere l’ultima e aggressiva offerta di Paramount, molti ritengono che la famiglia Ellison potrebbe rilanciare ancora, mentre Netflix potrebbe spingersi oltre, nonostante l’irrequietezza dei suoi azionisti. La rapidità con cui la piattaforma ha, infatti, presentato la sua proposta ha colto tutti di sorpresa, ma in un’epoca in cui YouTube domina la distribuzione globale e i colossi tecnologici come Google, Amazon e Meta trattengono per sé l’80% del mercato pubblicitario, la vendita di Warner Bros. appare inevitabile, diventando l’ultimo tassello di quel complesso intreccio di fusioni e consolidamenti che, se dal punto di vista finanziario sembra l’ultima risorsa per evitare che sia la Silicon Valley a dettare le regole del gioco, dall’altro è l’ennesimo duro colpo per la produzione, la creatività e l’indipendenza del mondo cinematografico, assoggettato alle regole del mercato, messo in ginocchio dalla pandemia con solo il 75% del pubblico tornato in sala a vedere film.

Jonathan Kanter, ex funzionario del Dipartimento di Giustizia nell’era Biden, ha ricordato nel seguitissimo podcast The Town di Matt Belloni come le fusioni abbiano raramente mantenuto le promesse di ricchezza: da AOL–Time Warner ad AT&T–Warner Discovery, ogni volta si è parlato di rafforzamento e di grandezza, salvo poi scoprire che non bastava e che serviva un’altra fusione. Una corsa al ribasso, che rischia di concentrare il potere in poche mani e di impoverire la qualità.

Ellison, nel frattempo, compie un’impresa paradossale: riesce a far apparire Zaslav come un genio e a conferire a Netflix – macchina spietata dell’engagement e nemica delle sale cinematografiche – un’inaspettata aura di simpatia agli occhi di Hollywood. La sua promessa di distribuire trenta film all’anno nelle sale si contrappone alle dichiarazioni di Ted Sarandos, che ha garantito il mantenimento delle windows theatrical e la produzione di serie per servizi concorrenti. Ma dietro le parole si celano numeri e strategie: Paramount parla di sei miliardi di sinergie, alias licenziamenti e tagli, mentre Netflix ne prevede due o tre, puntando a creare posti di lavoro e a risparmiare sui costi di licenza per l’acquisizione di contenuti che, a questo punto, sarebbero già suoi, visto che Warner ha una cosa che Netflix non ha, ovvero quelle IP, le Intellectual Properties come Harry Potter, l’universo DC e altri asset che, nel corso del tempo, sono sempre mancati alla società di Los Gatos.

Gli azionisti di Warner si trovano così davanti a un bivio: accettare l’offerta già firmata di Netflix, pari a 27,75 dollari per azione, o stracciarla per quella superiore di Paramount, da 30 dollari per azione, sostenuta – pare – anche da ventiquattro miliardi di finanziamenti provenienti dal Medio Oriente. La valutazione delle reti via cavo escluse dall’accordo Netflix resta incerta: Ellison le stima a un dollaro per azione, altri analisti a molto di più. Intanto Netflix ha perso circa 140 miliardi di valore di mercato da settembre, segno – ancora secondo Matt Belloni – che gli investitori non vedono in questa acquisizione un asset indispensabile.

Il destino di Warner Bros. resta sospeso tra promesse di rilancio e timori di smantellamento, tra pressioni politiche e strategie industriali. Qualunque sia l’esito, la battaglia in corso non riguarda soltanto uno Studio, ma l’intero equilibrio dell’industria dell’intrattenimento, che rischia di essere ridisegnato da poche mani e da interessi che vanno ben oltre il cinema, le serie TV e i parchi a tema.

Nonostante la vocazione partigiana a scegliere una squadra, come sempre, bisogna fare la tara a quanto ci viene raccontato: la squadra degli Ellison, in cui “gioca” anche il genero di Trump, Jared Kushner, dopo i tagli potrebbe continuare a gestire insieme i due Studios come entità contigue ma parzialmente separate e potrebbe operare cambi importanti sul piano dell’informazione, andando forse a mettere in discussione la totale libertà di espressione di reti come CBS e CNN, da sempre indipendenti nel racconto della politica americana e di quello che succede a Washington.

L’altro team è quello di Netflix, fino adesso contrario alla distribuzione theatrical, ma forse più attento a integrare linee di business di successo, sebbene abbia dinanzi a sé diverse comunità – come quella degli sceneggiatori e dei registi, tra cui James Cameron – preoccupate per una minore pluralità di offerte di lavoro, con un CEO come Ted Sarandos, democratico, finanziatore della sfortunata campagna presidenziale di Kamala Harris e con una moglie ex ambasciatrice alle Bahamas durante la presidenza Obama.

Alla fine dei conti, la realtà è che nessuno, oggi, può immaginare le conseguenze in dettaglio e su larga scala delle “soluzioni” al problema Warner che, ricordiamo, è nato soprattutto da un management in grado, nel corso di circa due anni, di cambiare radicalmente l’assetto societario: prima con una fusione con Discovery, poi con una parziale marcia indietro e una scissione dei suoi asset, generando questa situazione che è, ovviamente, figlia della nostra epoca, in cui il business tradizionale della televisione lineare è in crisi, il cinema non ha ancora raggiunto i livelli del passato e i servizi di streaming rischiano la saturazione del mercato a fronte di competitor come YouTube e TikTok che sembrano avere maggiore facilità nel raggiungere in maniera vincente “il nostro tempo” e quelle eyeballs (palle degli occhi) che oggi sembrano la vera metrica del successo.

A chiudere questo quadro complesso, desunto dai tanti articoli americani che riflettono sulla condizione “domestica” di questa fusione, va aggiunto che nessuno sa con certezza cosa accadrà nel resto del mondo, dove Paramount, Netflix e Warner hanno manager, personale, sedi, filiali e palazzi spesso distanti poche centinaia di metri e dove – come se non bastasse – possiedono anche film e serie prodotte localmente di grande rilevanza.

È la conclusione di un’epoca nata oltre un secolo fa? Probabilmente, ma non è detto che si tratti della fine del cinema così come l’abbiamo conosciuto, bensì di una sua ulteriore evoluzione in un momento storico complicato da una situazione geopolitica radicalmente cambiata, da innovazioni come l’intelligenza artificiale di cui nessuno ha capito davvero se si tratti di una rivoluzione e di un’evoluzione reale o solo di una “bolla”, da una produzione in serie spesso dettata da questioni finanziarie e non da scelte artistiche coraggiose e innovative.

Certo è che la frase di un altro film degli anni Quaranta, Il mistero del falco (The Maltese Falcon, 1941) di John Huston, utilizzata per celebrare la Warner – ovvero “The stuff dreams are made of”, “La materia di cui sono fatti i sogni” – sembra oggi avere una connotazione più psicanalitica che mai, considerato lo psicodramma globale nel mondo dell’entertainment che tutti stiamo vivendo nel provare a scommettere come potrà cambiare e se e quanto, in fondo, davvero cambierà l’audiovisivo così come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi.